A dodici anni da L’appartamento spagnolo di Barcellona e nove anni dopo la trasferta rutena di Bambole russe, il regista francese Cédric Klapisch sbarca oltreoceano per concludere (lo ha promesso) la sua trilogia con Rompicapo a New York.
La pellicola del 2013, vede ancora una volta protagonista Xavier Rousseau (Romain Duris), ormai quarantenne ed alle prese con sfide della vita ben diverse da quelle affrontate sotto il sole della capitale catalana e i consigli di Erasmo da Rotterdam. Padre di due bambini, reduce da una separazione dolorosa, alle prese con la sua insoddisfacente carriera di scrittore e con una nuova città da esplorare: New York, simbolo delle migrazioni globali e pura sfida esistenziale per chi tenta di viverla, o di comprenderne le complessità.
Nel mondo cinematografico di Klapisch, il percorso irregolare e laborioso del suo Xavier sembra non avere fine. Ancora una volta si ritrova intrappolato in un continuo viluppo di eventi difficili da sbrogliare. Non è un caso, infatti, che l’unica parte del titolo originale Casse-tête chinois (Rompicapo cinese) rimasta fedele nella traduzione italiana sia proprio “Rompicapo”, un termine che riflette perfettamente la natura frammentata dell’intera esistenza di Xavier. In questo terzo e ultimo atto della saga, la sua storia e quella delle donne più importanti della sua vita, continueranno a raccontare le sfide di una generazione sempre in lotta con le contraddizioni di un capitalismo spietato, ma irresistibile, accettato quasi senza riserve.
Come nei film precedenti, le figure femminili giocano un ruolo cruciale nella vita del protagonista, che affronta le complessità della famiglia moderna, caratterizzata da instabilità matrimoniale, cambiamenti nell’identità di genere, crescente centralità delle donne, convivenze fuori dal matrimonio, calo della natalità e la moltiplicazione dei modelli familiari (come famiglie monoparentali, single, famiglie ricostituite e unioni di fatto). Xavier, profondamente coinvolto sia nella vita dei suoi figli Tom (Pablo Mugnier-Jacob) e Mia (Margaux Mansart), che in quella delle sue ex compagne Wendy (Kelly Reilly), Martine (Audrey Tautou) e Isabelle (Cécile de France), incarnerà un viaggio umano particolarmente identificabile che lo porterà a fare scelte (finalmente) definitive.
Se nei primi due episodi della trilogia il problema era decidere da dove iniziare, in Rompicapo a New York la vera sfida è capire dove approdare. Un luogo fisico e simbolico in cui costruire e sentirsi a casa. Xavier, come la città di Manhattan che si erge dietro di lui, è in continua evoluzione. Camminando tra palazzi in costruzione, gru che svettano verso il cielo e cantieri che interrompono l’ordine delle avenue (poco prima delle riprese, sulla Grande Mela si era abbattuto l’uragano Sandy), si trova a tessere la sua storia, scegliendo come viverla e con chi.
In questo contesto, Klapisch affronta soprattutto il tema del tempo, non solo come struttura narrativa, ma anche come forza che agisce fuori dal set, lasciando il segno sugli attori. Xavier, pur trasferendosi a New York per stare vicino ai figli, si ritrova intrappolato in un mondo che lo obbliga a bilanciare i suoi desideri con la realtà, combattendo con il suo passato e i sentimenti irrisolti. Mentre cerca di ottenere la carta verde e di completare un libro ispirato alla sua vita, la sua esistenza rimane un continuo tentativo di trovare un senso, di riconciliarsi con un presente che lo sfida costantemente. Anche l’introduzione di tematiche più contemporanee, come la donazione del seme per l’amica Isabelle, diventa un pretesto per esplorare ulteriormente il cosmopolitismo esasperato del film.
Pur considerandosi progressista e aperto alla diversità, con Rompicapo a New York Klapisch non riesce a evadere completamente dagli schemi borghesi che cerca di criticare. Il film offre riferimenti intellettuali, come la presenza di Arthur Schopenhauer e Georg Wilhem Friedrich Hegel (entrambi sotto forma di visione/coscienza di Xavier, interpretati dallo stesso attore Jochen Hägele), ma alla fine opta per un finale confortante ed il tutto avviene in una confezione raffinata, in cui il lusso degli interni e gli status symbol tendono a prevalere sulla vera sostanza dei temi trattati.
Il paragone con saghe iconiche come quella di Antoine Doinel, diretta da François Truffaut, o il cinema sentimentale di Richard Linklater e dei suoi Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight, è inevitabile. Eppure, mentre i film di Klapisch cercano di emulare quella naturale fusione tra vita e cinema, Rompicapo a New York risulta spesso troppo costruito, un meccanismo narrativo che manca della spontaneità necessaria per trasformare una trama in una storia viva e coinvolgente. Sono i momenti in cui Klapisch si allontana dal controllo rigido della regia che il film riesce a brillare, grazie soprattutto all’interpretazione di Duris e alla vivacità di una New York che si trasforma senza sforzo in set cinematografico.
Ciò che rimane alla fine dei 117’ del film (l’eccessiva durata è un problema costante dell’intera trilogia) è il consueto gioco di Xavier: la ricerca dell’amore, le grandi questioni filosofiche e l’incapacità di afferrare davvero il mondo che lo circonda.
Potrebbe sembrare un ritratto superficiale di una realtà poco esplorata (e in parte lo è), ma la decennale relazione tra gli attori e i loro personaggi fa sì che inevitabilmente emergano momenti di verità e autenticità e, involontariamente o meno, questi frammenti di umanità elevano a tratti Rompicapo a New York al miglior capitolo dei tre film…sempre a patto di non pretendere troppo e accettare ciò che offre: una conclusione stilisticamente raffinata e tematicamente coerente con il percorso del suo protagonista.
Alessandrocon2esse
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