C’erano un francese, una spagnola, un tedesco, una belga, un danese e un italiano che vivevano nello stesso appartamento.
No…non è l’incipit di una di quelle classiche barzellette con cui si ammazzava la noia (o almeno ci si provava), prima dell’avvento dell’Internet a portata di mano, su cui adesso illustri sconosciuti intrattengono ignari millennials, inscenando le medesime barzellette.
Trattasi della trama de L’appartamento spagnolo, pellicola franco-spagnola del 2002 diretta da Cédric Klapisch, che deve il suo titolo al modo di dire francese “L’auberge espagnole” che indica quei luoghi in cui è possibile mangiare ciò che ci si è portato da casa e, pertanto, che bisogna imparare ad essere indipendenti.
Il protagonista del sesto film del regista transalpino, l’aspirante scrittore francese Xavier Rousseau (Romain Duris), lascia la propria patria per partecipare al programma Erasmus e trascorrere un anno di studio a Barcellona. Qui condividerà un’abitazione con altri giovani studenti, tutti di nazionalità diversa, compiendo un autentico viaggio personale, esplorando con umorismo e delicatezza le incertezze della partenza, le scoperte, le delusioni e le scelte che emergeranno da questa nuova esperienza in un contesto diverso.
Nel tentativo di capovolgere ed ironizzare sugli stereotipi che etichettano ognuna delle nazionalità sopracitate, la commedia di Klapisch si distingue dalle pari grado di genere per il suo approccio genuino e realistico. Per una volta non ci troviamo davanti il classico eroe invincibile che deve dimostrare il proprio valore, ma un gruppo di dissimilissimi ragazzi in cerca di un loro equilibrio personale, ciascuno con le proprie qualità e debolezze, che attraverso la convivenza scopriranno aspetti di sé che prima ignoravano.
Uno degli aspetti più apprezzabili de L’appartamento spagnolo è che i suoi personaggi non sono ridotti a semplici stereotipi nazionali, ma vengono sviluppati in modo che risultino credibili e complessi. Non ci sono messaggi universali da applicare a tutti gli studenti universitari, bensì una storia che si concentra sui percorsi individuali e sulle interazioni di questi ragazzi, raccontando con una punta di dolce malinconia il loro ultimo periodo di spensieratezza, prima che debbano affrontare le sfide e le responsabilità dell’età adulta. Tuttavia, questo tocco nostalgico è bilanciato da una narrazione leggera e delicata, che riesce a catturare con sensibilità i cambiamenti e le scoperte dei protagonisti.
L’appartamento spagnolo è una pellicola che parla delle piccole gioie e dei dubbi dell’età adulta nascente, con un tono leggero, ma mai superficiale e che riesce a coinvolgere grazie alla sua freschezza e spontaneità. Anche se non ci riesce sempre, Klapisch evita abilmente di cadere in facili cliché e crea un’opera vivace in cui sette protagonisti provenienti da diverse culture si intrecciano tra lingue e abitudini differenti in un caos affascinante e dinamico. Con una sceneggiatura creata in circa due settimane e modificata continuamente durante le riprese, Klapisch ha preferito abbracciare la spontaneità piuttosto che cercare la perfezione. Questo approccio rilassato si riflette anche sul pubblico, che può godersi il film senza il peso di eccessivi intellettualismi. La narrazione scorre con un ritmo frizzante, caratterizzato da un montaggio che prevede split screen, accelerazioni e cambi di prospettiva che danno vita a una storia che, pur partendo da una premessa semplice e forse un po’ fragile, mantiene viva l’attenzione per tutte le due ore della sua durata.
La scelta di Duris, noto per ruoli energici e intensi (vedi Dobermann di Jan Kounen), si rivela vincente: l’attore porta sullo schermo una performance misurata e sottile, che mostra gradualmente l’evoluzione interiore del protagonista. Ma è l’intero cast a funzionare bene in realtà, tant’è che il film si meriterà ben due sequel: il franco-britannico Bambole russe del 2005 ed il franco-americano Rompicapo a New York del 2013, sempre diretti da Klapisch.
Purtroppo però tutto quanto letto finora, possiede valore solo se lo spettatore ha fruito della visione del film nella sua versione in lingua originale. Per chi l’avesse invece fatto in quella doppiata in italiano, l’esperienza potrebbe essere apparsa frustrante e deludente, essendo in pratica totalmente negata l’opportunità di apprezzare la vera ricchezza delle lingue degli eterogenei protagonisti, con tutte quelle sfumature e quelle tonalità che conferiscono autenticità ai dialoghi.
Da quasi un secolo infatti, i film arrivano nelle sale italiane con un’identità alterata, schiacciati dall’uso di una lingua che non appartiene loro, ma ad una risicata setta di professionisti che si appropria della voce (e del lavoro di dizione) degli attori e modifica intere sceneggiature per far combaciare parole italiane con il movimento delle loro labbra. Ne L’appartamento spagnolo, in particolare, la discrepanza tra l’audio originale e il doppiaggio italiano è sempre percepibile, rendendo l’esperienza visiva artificiosa e poco coinvolgente. L’importanza delle differenze linguistiche e culturali ed il loro superamento attraverso l’uso di lingue diverse, come l’inglese, il francese o lo spagnolo, è uno dei temi principali dell’opera…ma nella nostrana versione doppiata, queste sfumature vanno a farsi benedire, al punto che diventa letteralmente impossibile giudicare il film per quello che realmente è.
Sicché, se non avete la possibilità di guardarlo in lingua originale, o proprio vi stanno sullo stomaco i sottotitoli (comunque presenti anche nella versione italiana), il miglior suggerimento che io possa lasciarvi se siete arrivati a questo punto, è di dirottare la vostra scelta su un altro film…magari un cinepanettone.
Alessandrocon2esse
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