Adoro entrare al cinema sapendo a malapena pronunciare il titolo del film. Come ho avuto modo di dire tante volte, questo è possibile quasi esclusivamente nelle rassegne, e non in quelle grandissime, essendo oggettivamente molto complicato che chiunque nella quotidianità andare al cinema senza sapere proprio nulla. Il rovescio della medaglia è che le brutte sorprese, riferendosi a un cinema evidentemente sperimentale e indipendente, sono molto più frequenti di quelle belle. Il rischio però, secondo il mio modo di vedere le cose, vale la candela, soprattutto, se nel mazzo ti ritrovi a vedere pellicole come, appunto, L’Art D’être Heureux.
Devo essere onesto, il mio umore prima di entrare in sala non era altissimo. Tre mezzi giorni di Festa del cinema di Roma e tutti gli spettacoli a cui avevo assistito erano stati tra il pessimo e il mediocre. Sentivo quasi la necessità di un colpo di bellezza. Per quanto uno ami il cinema e abbia la voglia di vedere tante produzioni, il cuore, infatti, ha bisogno ogni lasso di tempo di essere assetato, se non altro per compensare l’emotività con la quantità. E questo film mi ha fatto ritrovare l’equilibrio.
Entrando nello specifico, che poi è il motivo di questo pezzo, era tantissimo tempo che non ridevo con cosi tanta costanza (in pratica dal primo all’ultimo minuto) senza mai e ripeto mai, perdere il filo emotivo della storia (peraltro tutt’altro che comico). Un susseguirsi continuo di situazioni paradossali (e dannatamente reali e concrete) che sono riuscite a scaldarmi il cuore e a dare un senso di leggerezza a un tema, quello del buco sentimentale e della solitudine, spigoloso e soggetto sempre all’ovvio e alla retorica.
In questa storia non c’è un solo elemento di normalità e nonostante questo la sensazione di vicinanza è pressante e il senso di immedesimazione costantemente presente. L’argomento fallimento è trattato da un’angolazione sempre diversa, senza però, sarebbe stato un errore, che se ne riscrivessero i canoni e il significato che cosi è apparso anch’esso concreto e tangibile.
Altra particolarità del film, a mio avviso, è quella di essere riuscito a smascherare con una disarmante capacità una delle realtà della vita: tutti alla fine, all’interno del nostro essere soli, abbiamo la necessità di condividere quello che siamo. Vale certamente mettersi la maschera, vale quello che la vita ci riserva, ma poi alla fine quello che ci salva è la possibilità di esser almeno un po’ apprezzati per quello che non nascondiamo. E’ l’unico modo per salvarsi e anche l’unico modo per avere, altro tema del film, una seconda possibilità. Anche la fine, senza anticipare, pericolosissima per tutta l’impostazione del racconto, riesce a essere altrettanto empatica e sottilmente sospesa, seppur sorretta da un senso di speranza pieno e “allegramente” contaggiante. Altresì in questo frangente la retorica era dietro l’angolo e vuoi per i silenzi o per proprio la costruzione degli ultimi secondi, invece, ce ne si è stati ben lontani coronando cosi il bellissimo percorso fin li avuto.
Ovviamente sulla carta sono tutte belle parole e idee, ma senza un qualcuno che riesca a rappresentarle tutto si sarebbe ridotto a una nuvoletta sulla testa solo di chi le ha pensate. Ed ecco che quindi entra in ballo Benoît Poelvoorde e la sua meravigliosa, stupefacente, incantevole e contagiosa prova. Il suo Jean-Yves Machond è un concentrato di metafore e materialità come poche volte se ne ricordano negli ultimi anni. Quel suo essere borderline tra il genio e lo sciocco è il sale del film e questo perché lo eleva a qualcosa di molto vicino all’onirico e al concettuale. Sinceramente, e mi sono sforzato, non riesco a trovare un connubio tra gesti e intenzione cosi particolare e funzionale al tema come in questo caso. Ovviamente ce ne sono a decine, ma è giusto, in questo contesto esaltarlo, anche correndo il rischio di esagerare.
La categoria Progressive Film della Festa del Cinema di Roma dovrebbe, e in molti casi ha, la caratteristica di dare un’opportunità importante ai film indipendenti (per quelli più strutturati c’è quella denominata Gran Public) di tutto il mondo. E’ ovvio che poi, oltre evidentemente al contenuto, per una giusta diffusione è necessario trovare e avere un pizzico di fortuna. Nell’edizione 2023, dominata giustamente da C’è ancora domani, molto poche pellicole sono riuscire ad uscire dallo schema di questa rassegna (mi piace ricordare Death is a problem for the living, La morte è un problema dei vivi) e spero che in questa nuova 2024, L’Art D’être Heureux ci riesca. L’unico dubbio che ho è l’effetto del doppiaggio. Qui tutti i film vengono riprodotti in lingua originale con in sottotitoli e non sono sicuro che la traduzione vocale possa rendere giustizia ai tempi e all’inclinazione emotiva che ho tanto apprezzato. Detto questo, consiglio comunque di correre il rischio e anche se alla fine il prodotto finale sarà un pizzico più statico (a livello sonoro) di quello che ho visto io, rimarrebbe comunque uno piacevolissimo spettacolo nel perdersi cuore, anima e…mascelle.
Jonhdoe1978
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