E’ stato già detto che Pulp Fiction è una piccola perla di scrittura che ha completamente stregato pubblico e critica di tutto il mondo, stimolato solo parole di encomio, illustri paragoni con mostri sacri della regia e segnato una vera e propria rivoluzione all’ interno del cinema indipendente? Si? E vabbè…
E’ stato già detto che Pulp Fiction è un’ opera “universale” che contiene tutti gli ingredienti del cinema, riuscendo a farli convivere e che, anziché stridere fra loro, si esaltano in uno spettacolo di scene e sequenze in cui è impossibile scovare dettagli fuori posto? Si? E vabbè…
E’ stato già detto che Pulp Fiction ha una struttura “dedalea”, ma contrariamente al suo naturale scopo di confondere chi provi a risolvere il suo rompicapo, una volta risucchiati al suo interno, risulta inverosimilmente semplice la sua lettura e che il merito sia tutto nel suo linguaggio immediato, divertente e coinvolgente? Si? E vabbè…
E’ stato già detto che Pulp Fiction attraverso un’ abile normalizzazione della violenza e lasciando morire uno dei suoi protagonisti per mostrarci dopo ciò che cronologicamente succede prima, arriva a nobilitare la morte, portando il pubblico a credere che ogni singola brutale azione, sia solo frutto del destino e che quindi non serve a nulla stare ad arrovellarsi sul “perché Tizio uccide Caio” e quali siano le ragioni che lo abbiano spinto a farlo, perché le risposte arrivano prima che lo stesso pubblico abbia il tempo di porsi le domande? Si? E vabbè…
A questo punto non so se sia stato già detto, ma in questo caso non vedetela come una ripetizione…piuttosto consideratelo come un sostegno a una giusta tesi:
Pulp Fiction non è “Un film”…Pulp Fiction è “Il Film”.
In realtà basterebbero queste undici parole (di cui solo tre non sono ripetute una seconda volta) per descrivere quello che è il capolavoro di Quentin Tarantino per ogni appassionato di cinema (e non) vivente (o morto dopo il 1994) del globo terracqueo, ma essendo stata capace di sublimare un lungo elenco di generi in un nuovo modello per il cinema moderno, la pellicola del regista di Knoxville merita a tutti gli effetti almeno il “piccolo sforzo” di provare a dire ciò che sicuramente sarà già stato detto.
Del resto, a ben pensarci, anche lo stesso Tarantino ha sempre sostenuto di aver “depredato” il cinema classico ed i suoi grandi miti, per reinventare un genere (il suo genere) e dare vita ai suoi “Pulp Movie”…chissà che dopo tutto quanto letto e sentito negli anni su questo film, non riesca anch’ io ad ideare un nuovo genere di recensioni: le “Pulp Review”.
Scherzi (e parentesi) a parte, mi risulta davvero complicato recensire in maniera oggettiva questa pellicola.
Nemmeno il pensiero di non dovermi preoccupare di eventuali spoiler riesce a rendermi meno nervoso, per cui proverò a trovare la “spinta” immaginando di essere uno di quei basiti critici che nel 1941, si ritrovarono a dover raccontare (ed analizzare) quel Quarto Potere di Orson Welles.
Mi piace pensare che Tarantino abbia immaginato il suo Pulp Fiction come un enorme cubo di Rubik, dove ogni colore appartiene ad un genere cinematografico ed ogni singola faccetta colorata è una scena, un personaggio o un dialogo a se stante che, presa singolarmente, non ha alcun senso e non ha nulla a che vedere con le altre sue vicine. Tarantino ha incasinato appositamente quel cubo e poi, con maniacale calma e movimenti semplici e studiati nel minimo dettaglio, abbia riportato ogni faccetta al suo posto come quando il cubo è uscito dalla sua confezione.
La particolarità più assurda di questa similitudine (che poi è probabilmente il segreto del successo del film) è che il regista è riuscito ad ipnotizzarci e tenerci incollati a guardarlo per 154 minuti mentre sistemava il suo cubo, faccetta dopo faccetta, riuscendo addirittura a farci divertire…quando nella vita di tutti i giorni, avremmo perso interesse in quel cubo dopo pochissimi minuti, anche se fossimo stati noi a tenerlo fra le mani.
Un ottovolante che compie un giro completo di 360° per tornare al punto iniziale da cui era partito, lasciando in testa quella stranissima voglia di rifare subito un altro giro. La trama parte e si conclude nel ristorante nel quale i protagonisti si ritrovano infine, vittime loro stessi della coppia di imbranati rapinatori della scena iniziale. Tutto lineare…certo, se però non avessimo precedentemente assistito alla morte di uno dei due protagonisti che ora è lì presente e si avvia felice verso i titoli di coda. Quindi qual è la fine del film? Qual è l’ inizio? Chissenefrega!!! Nulla è rimasto in sospeso e miracolo fra i miracoli, nonostante la confusione tutti i tasselli del puzzle sono al loro posto…e va bene così.
Tutto parte dall’ artificio già visto nella sua opera prima Le Iene, a cui vengono aggregati una fortissima componente narrativa divisa in tre grandi capitoli, una sfilza di brillanti quanto disadorni dialoghi ed omaggi, citazioni e “situazioni” celebrative ai miti d’ infanzia dello stesso regista che vedono nella scena del Jack Rabbit’s Slim il loro apogeo. In un’ arena costruita a mo’ di museo del cinema, fra sosia delle star, statue e locandine iconiche, prende vita l’ ode al cinema di Tarantino, dove John Travolta ballando omaggia il se stesso degli esordi e Marcello Mastroianni in 8½ di Federico Fellini, la cameriera lasciata senza mancia dalle assurde dottrine della “Iena” Mr. Pink, può ritenersi vendicata osservando Steve Buscemi vestire i panni punitivi di un cameriere del locale ed il retroscena sulla puntata pilota delle “Fox Force 5” si rivelerà poi essere l’ idea narrativa su cui (dieci anni dopo) nasceranno Kill Bill Vol. 1 e Vol. 2.
A questo punto qualche innocente profano potrebbe addirittura sostenere che l’ intera fortuna di Tarantino sia fondata su un intelligente, magistrale e curatissimo “Copia/Incolla” di tutto ciò che ha irrorato la sua enorme passione per il cinema…e invece no. Ma proprio no. Perché nel suo “citazionismo” Tarantino, da profondo osservatore, riesce sempre a trovare una rilettura estetica, divertendosi con gli spettatori e le loro previsioni e giocando (letteralmente) con chi il cinema lo conosce un po’ di più. Un esempio lampante di questo “gioco” in Pulp Fiction avviene con il personaggio di Butch Coolidge interpretato da Bruce Willis. Il regista, dopo aver accostato Butch sia al Jake LaMotta di Toro Scatenato che al Terry Malloy di Fronte del porto, fa di tutto per creare nella mente dello spettatore un rimando al John McClane di Willis della saga di Die Hard: ad un certo punto ce lo ritroviamo davanti, sudato, maglietta sporca di sangue e mitraglietta in spalla…è lui…è McClane. Ma attenzione però, sorpresa!!! Butch invece di svuotare il caricatore su chi l’ ha ridotto in quello stato, decide di lasciare lì la mitraglietta e di optare per una più Tarantiniana e “Pulp” katana…ecco, è proprio questo quello che manda in brodo di giuggiole quelli come il sottoscritto.
Un Cast che, oltre ai già menzionati in precedenza, vanta nomi come Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Christopher Walken, Tim Roth, Harvey Keitel, Ving Rhames, Amanda Plummer, Eric Stoltz, Rosanna Arquette, Angela Jones, Peter Greene e Maria de Medeiros…altri buonissimi tredici punti a favore di questa meraviglia della settima arte.
Senza rischiare di allontanarmi da quel sentiero di oggettività premessomi un migliaio di parole fa, credo di poter consegnare a Pulp Fiction il titolo di “Biglietto da visita” che il cinema possa consegnare ai posteri per descrivere quello che è stato nel suo ultimo trentennio, emblema cinematografico del termine “Immortalità” che, come abbiamo già potuto notare, difficilmente potrà essere replicato e/o superato dallo stesso regista, nonostante possa lo stesso vantarsi al bar davanti agli amici ed una birra, di essere ancora il regista più influente della sua generazione.
Alessandrocon2esse
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