Se dovessimo chiedere a 10 persone a caso a cosa associano la paralo suspence, 9 risponderanno senza dubbio thriller. L’horror, infatti, nell’immaginario collettivo è sangue, violenza ed eccesso. Ed invece, dal mio punto di vista, non esiste nulla di più coinvolgente (per il genere ovviamente) di una tensione horror, soprattutto, perché è difficilissima da creare e trasmettere.
Prima, però, di arrivare a sovrapporre questa mia considerazione al film in oggetto, ritengo sia necessario fare delle considerazioni preliminari. Per prima cosa c’è da dire, è un discorso che ho fatto più volte negli ultimi tempi (vedi Nefarius, Vermines e Last Nigth ith the Devil), Longlegs allunga ancora l’onda lunga del periodo d’oro dell’horror e per certi versi è una sorpresa. E lo è non perché (per quale ragione poi?), statisticamente, come mi è più volte capitato a cavallo tra gli anni novanta e duemila, alcuni brutti prodotti sul genere dovranno prima o poi emergere, quanto per la valenza generale di chi questo film l’ha diretto e scritto. In pratica, Oz Perkins è stato sempre autore di storie tra il mediocre e lo scarso e nulla poteva far pensare a un cambio di rotta. E invece, è come se questa linfa d’oro di idee e realizzazione del genere abbia unto anche lui, facendogli tirare fuori, senza dubbio, il suo figlio più bello. La meraviglia, cosi veniamo alle parole iniziali, non sta tanto nella trama, abbastanza comune, quanto, appunto, nell’atmosfera creata dal regista, in particolare nella seconda parte della storia. Quello che si prova, infatti, al di la del racconto in sé, ripeto nulla di nuovo, è una sensazione di fiato corto e, soprattutto, di pericolosità personale. L’intensità dell’angoscia attraversa lo schermo per attecchirsi alle tue ossa, distruggendo quella sicurezza di chi ne ha visti tanti (di film) provata all’inizio del film. Longlegs ti prende, ti da sicurezze e poi ti smonta a piccoli pezzi giocando con la tua sensibilità e la tua instabilità emozionale del momento. Le parole finali, uniti a una fotografia e a una serie di inquadrature azzeccatissime, creano una crack sensoriale impressionante che porta lo spettatore a percepire e provare più per l’idea che per le immagini in se. E non ho dubbi che questo fosse l’intento di Perkins e quindi i meriti sono evidenti e innegabili.
Un altro dei motivi di successo, cosa ormai ripresa da tantissimi prodotti di genere, è stato utilizzare come sfondo gli anni antecedenti la tecnologia. Non c’è, a mio avviso, una ragione tangibile, ma i colori e ragionamenti 70/80/90 hanno una presa diversa, quasi che inconsciamente il male in quel periodo fosse più male. Forse perché in quelle epoche le cose erano tangibili e la sensazione di potersi nascondere, e valeva appunto per tutti, era molto più viva. Certo, una cosa è il pensare e una il farlo. E anche qui Perkins è stato bravissimo nel modulare azioni, ambienti e dinamiche dando cosi la perfetta sensazione di quel percorso di provincia tanto caro all’idea di omicidi e terrore. Parliamoci chiaro, tranne alcuni casi (direi recentemente La casa – Il risveglio del male), il terreno di caccia ideale per una storia horror non è la città e questo perché essa toglie silenzio e quindi l’accentuazione di quei piccoli rumori che fanno da cornice alla paura e, tornando alle prime righe, alla suspence.
Il punto forte di Langlegs non è la recitazione e neanche ambisce a esserlo. Gli attori sono giusti, ma quello a cui si punta, come appena detto, è creare un’idea macabra più che mostrarla, far percepire l’onnipotenza del diavolo attraverso piccole ma intense sfumature. L’unica eccezione riguarda il villain e questo perché doveva racchiudere la semplicità e la debolezza umana insieme a un’aspirazione di immortalità e, giustamente, un aspetto non proprio rassicurante. Ovviamente, il trucco ha aiutato, è quasi irriconoscibile, ma il tocco personale del fuoriclasse Nicolas Cage l’ha dato un’altra volta. Nel monologo che lo vede protagonista, ci si dimentica del contesto antecedente e si ha l’impressione che il pericolo riguarda anche noi, cambiando di fatto tutta la comprensione del plot.
Se ci si dovesse basare solo sull’osso della trama molti film non dovrebbero neanche essere presi in considerazione, e questo in molti casi avviene. Come ho avuto già modo di dire, quello che veramente incide sulla riuscita o non del progetto (ovviamente se non si tratta di qualcosa di veramente visto e rivisto o fuori da ogni logica di genere) è la sua realizzazione. Entrando nello specifico, quante storie sui serial killer abbiamo visto? Quanti sul diavolo? Domande retoriche che cercano solo di spiegare come l’idea è una cosa e la sua rappresentazione un’altra e come lo stimolo della percezione (sempre in riferimento a certi genere di film) sia molto più avvolgente della sua manifestazione visiva. L’orrore degli occhi molto spesso passa subito, quello della mente è molto più strisciante e quindi più duraturo e intenso. D’altronde non c’è nulla di più ammaliante della nostra immaginazione e Oz Perkins con questo Longlegs è riuscito a spaventarla e, invertendo i fattori, deliziarla. Ora rimane da capire se questo è stato il canto più alto o l’inizio di una nuova carriera, senza impensierirci troppo per il momento ci basta sapere che il diavolo è silenzioso e spesso dormiente, ma i suoi patti li vuole rispettati e quando finiscono è sempre pronto a trovarne degli altri…
Jonhdoe1978
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