A tre anni di distanza da Ad Astra, il regista e sceneggiatore James Gray torna con Armageddon Time, un’opera intima e autobiografica che si immerge nei turbamenti dell’adolescenza e nelle tensioni sociali dell’America di fine anni ‘70.
Il film racconta la storia di Paul Graff (Michael Banks Repeta), un ragazzino ebreo della classe media del Queens che sogna di diventare artista, ma si scontra con le aspettative della sua famiglia, le insidie del sistema scolastico e le contraddizioni di un Paese, in cui le disuguaglianze razziali e sociali si fanno sempre più evidenti.
Gray costruisce un racconto di formazione in cui la crescita del piccolo protagonista, coincide con la presa di coscienza delle ingiustizie e delle responsabilità che derivano dall’essere parte di una società stratificata. Paul è un personaggio che, pur essendo il fulcro della narrazione, rimane perlopiù passivo, una sorta di cartina di tornasole attraverso cui il pubblico è chiamato a riflettere sul compromesso morale insito nel cosiddetto “sogno americano”.
Lo statunitense dimostra il suo talento nella costruzione di scene collettive e nel tratteggiare personaggi autentici e sfaccettati. Tra questi spiccano Irving e Esther Graff, i genitori di Paul, interpretati da Jeremy Strong e Anne Hathaway. La madre, seppur inscritta nel tipico cliché della donna ebrea-americana forte e resiliente, riesce a distinguersi per una profondità emotiva che va oltre la semplice caratterizzazione. Il padre, inizialmente più in ombra, si svela progressivamente, offrendo un ritratto complesso di un uomo combattuto tra severità e amore. Ma è il nonno Aaron Rabinowitz, interpretato da un misurato Anthony Hopkins, a rappresentare la coscienza morale della storia: è lui a trasmettere a Paul il senso di giustizia e il peso della responsabilità, invitandolo a non rimanere passivo di fronte alle ingiustizie del mondo.
Tuttavia, il cuore del film ruota attorno al rapporto tra Paul e Johnny Davis (Jaylin Webb), un coetaneo afroamericano cresciuto in un contesto ben più svantaggiato del suo. La loro amicizia è segnata da un’innocente complicità che si scontra con la dura realtà di un sistema che non concede a entrambi le stesse possibilità. Paul e Johnny combinano guai, si ribellano alle regole e condividono sogni di libertà, ma quando vengono scoperti a fumare marijuana nei bagni della scuola, le conseguenze sono drasticamente diverse per i due ragazzi. Paul viene trasferito in un’esclusiva scuola privata, Johnny viene lasciato al proprio destino. È in questo momento che il film svela la sua riflessione più dolorosa: il privilegio di Paul, che lo protegge anche quando sbaglia, e l’invisibilità di Johnny, che paga il prezzo più alto senza alcuna via di fuga.
Uno degli aspetti più riusciti del film è il modo in cui Gray riesce a rendere palpabile il senso di inadeguatezza dei suoi personaggi. Paul, nel suo desiderio di ribellione, scopre presto che crescere significa scegliere da che parte stare. I suoi genitori, stretti tra il desiderio di offrirgli un futuro migliore e la consapevolezza dei sacrifici necessari, incarnano il compromesso che ogni generazione è chiamata a fare. Il nonno, invece, rappresenta l’ultimo baluardo di una coscienza etica che invita alla resistenza, ma che appare ormai sempre più fragile.
Nonostante alcune debolezze nella caratterizzazione del protagonista, Armageddon Time si fa ben volere per la sua regia raffinata e la capacità di Gray di evocare un’epoca con grande attenzione ai dettagli. L’atmosfera degli anni ‘70 è ricostruita con precisione, dalla fotografia calda e avvolgente di Darius Khondji ai riferimenti storici e politici, tra cui l’ascesa di Ronald Reagan, che nel suo discorso alludeva a un imminente “Armageddon” nucleare. Questo contesto storico non è solo uno sfondo, ma diventa un elemento chiave nella narrazione: segna il passaggio da un’America ancora legata all’idea del melting pot a un’era di crescente individualismo e disuguaglianza.
Se però da un lato il film cerca di problematizzare il ruolo degli ebrei americani nella società dell’epoca, dall’altro rischia di cadere in una rappresentazione autoassolutoria: Paul e la sua famiglia non hanno una reale responsabilità nelle vicende di Johnny, e la loro posizione di “spettatori” delle ingiustizie finisce per smorzare il potenziale drammatico della storia.
Con Armageddon Time, Gray firma un’opera personale e malinconica che, pur non priva di imperfezioni, riesce a toccare corde profonde. È un film che parla di crescita, di perdita dell’innocenza e di come il mondo in cui nasciamo plasmi inevitabilmente il nostro destino. Un racconto amaro, che non offre soluzioni facili, ma invita a interrogarsi sul significato di giustizia, privilegio e responsabilità, in una società che continua a riprodurre ciclicamente le sue disuguaglianze.
Una pellicola dal sapore straziante e vitale, proprio come straziante e vitale è il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Alessandrocon2esse
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