Sono, senza ombra di dubbio, due le motivazioni che possono spingere una persona a fare un gesto normalmente fuori logica: l’ingordigia, nella quale possiamo comprendere anche l’arrivismo e la cupidigia, e l’amore, inteso in tutte le sue sfumature. Entrambi, seppur ovviamente all’antitesi, infatti, hanno da sempre la capacità di minare il normale giudizio modificando la soglia di ragionevolezza, sia nel bene che nel male, che si dovrebbe avere.
Tre uomini entrano in una banca a Brooklyn poco prima della sua chiusura con l’intento di rapinarla. Il più giovane dei tre, però, si accorge subito di non essere in grado di continuare e decide di andarsene lasciando cosi da soli Sonny (Al Pacino) e Sal (John Cazale), questo il nome degli altri due. Qualcosa però va storto e quello che sarebbe dovuto durare al massimo 10 minuti diventa maledettamente complicato.
Inspirato a fatti realmente accaduti, Quel pomeriggio di un giorno da cani è sostanzialmente un film sulle diversità e sul peso delle scelte. Sotto il primo aspetto, tutto il racconto è un continuo alternarsi di personalità e inclinazioni contrastanti, a partire proprio dai protagonisti, Sonny e Sal, che in comune non hanno nulla. Il primo è estroso, focoso, irruente e con una lingua che tende a dire sempre una parola di troppo. Il contrario il secondo che invece vive di silenzi, e di una strana ombra nostalgica che lo fa rimanere, almeno apparentemente, sempre un passo indietro. Tale scala di disuguaglianza emotiva la troviamo anche sia nei dipendenti sequestrati della banca, un direttore bianco e guardiano nero, una donna emancipata e svelta e una che ha paura di tutto, una mogliettina timida e un’altra a cui piace l’iniziativa, che nelle forze dell’ordine, con il tenente Moretti tendente a cercare il dialogo e l’aspetto umano e l’agente federale Sheldon a cui importa solo il risultato a prescindere dalle conseguenze e da come ci si arriva.
La stessa comunità sociale, i primi minuti del film ci danno in rassegna una carrellata di New York con persone di tutte le estrazioni sociali intente in qualche attività, è rappresentata in maniera variegata e soprattutto volubile. L’onda emotiva con cui le persone al di fuori della banca reagiscono al coming out di Sonny ne è proprio l’esempio più lampante, con un sei tutti noi a sparisci repentino e (lo era anche all’inizio) superficiale.
Il secondo punto, le scelte, che segue direttamente quanto detto nella premessa, si incastra sulle motivazioni dei due rapinatori, anch’esse completamente differenti. Quelle di Sal hanno il sapore dell’ultima spiaggia, di quell’all in (ad un certo punto dice chiaramente al suo compagno: hai promesso o va bene e ci rimaniamo) definitivo, quale estremo colpo di coda per cambiare una vita che non è andata esattamente come da aspettative. Per Sonny invece, è l’amore. Il trovare dei soldi per far fare l’operazione di cambio sesso al suo Leon. Questo passaggio, rappresentato in maniera delicata dal film è anche il più disilluso. Leon, i due sono sposati, ma Sonny è sposato anche con una donna dalla quale ha avuto due figli, sembra essere emotivamente distante, come se il gesto del più giovane dei rapinatori, nonostante le intenzioni, sia già fuori tempo massimo. La loro telefonata ha il sapore amaro di qualcosa che si rompe e che lascia, all’interno di una personalità divisa (ovviamente), dei cocci cosi finemente rotti che anche se rimessi insieme manterrebbero ben evidenti le cicatrici.
All’interno di questo di per se universale momento di consapevole sconfitta (la dettatura delle sue ultime volontà ne è la riprova), il tema dell’omosessualità è affrontato in maniera equilibrata facendo scontrare l’accettazione della normalità di alcuni alla ripulsione per altri (lo stesso Sal nonostante l’affetto per Sonny vuole far dire a tutti che lui non lo è). Quello che ne emerge, e qui Sidney Lumet è stato bravissimo, è il senso generale dell’amore e la sua inevitabilità. Nella specie di testamento dettato da Sonny (momento cinematograficamente meraviglioso), c’è proprio questa esaltazione, di come i sentimenti non abbiano padrone ma sono figli di quell’irrazionale appartenenza a cui non possiamo sottrarci.
Nonostante il film sia interpretato complessivamente a livelli altissimi è innegabile che Al Pacino e John Cazale riescano, per motivi diversi, ad arrivare di più degli altri. Il primo è riuscito a bilanciare tutta la complessa personalità del suo personaggio rendendolo nitido e alla fine comprensibile, soprattutto nelle motivazioni. Il secondo, ricordiamo come ogni film che ha interpretato è stato candidato agli Oscar, è assolutamente perfetto per quello che doveva rappresentare: la negazione in contrapposizione al continuo fare del suo dirimpettaio.
Quel pomeriggio di un giorno da cani è un film che riesce a combinare perfettamente il senso generale e immortale del cinema con le particolarità di una generazione. Lo sfondo è tipico degli anni settanta, con l’esaltazione della televisione, vista ancora come una meta irraggiungibile, e le profonde fratture sociali, con al centro le divisioni cittadino/polizia e uomini/sessualità, padroni della scena. La parola Attica, quale esempio storico della sopraffazione, è citata più volte cosi come omossessuale che alla fine diventa la discriminate per morale di un’azione.
La gestione raffinata di tutti questi elementi riescono a sovrastare l’elemento materiale della storia, ormai nessuno potrebbe mai più entrare cosi facilmente con il fucile in una banca, rendendola fruibile e in qualche modo attuale anche dopo oltre 45 anni dalla sua uscita. E questa considerazione se da una parte esalta l’eterna magia del cinema dall’altra dimostra come certe dinamiche di comportamento, intese a livello generale, non siano cambiate come forse si pensa.
Jonhdoe1978
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