Nell’estate del 1992, all’aperto nel paese di madre provenienza in Sardegna, vidi Il Danno. Esso, interpretato meravigliosamente da Jeremy Irons e Juliette Binoche, ci portava nei meandri complessi e ossessivi dell’amore passionale e irrazionale, mostrando come fisico e ragione in alcuni casi non vanno molto d’accordo. Ora la domanda che vi porrete è: cosa c’entra Il Danno con Novocaine? Sostanzialmente assolutamente nulla, ma l’inizio per come strutturato il film (Novocaine) me l’ha fatto venire in mente in maniera prepotente. Peccato che è stato solo un fuocherello intrigante e che poi la scelta sia caduta su altre e discutibili scelte.
David Atkins, oltre che della regia è autore insieme a Paul Felopulos della sceneggiatura, perde, a mio avviso, una grande occasione per il suo primo lungometraggio, dissipando minuto dopo minuto un incipit, le prime righe sono inequivocabili in merito, decisamente interessante e pieno di potenzialità. La costruzione narrativa dei personaggi e delle situazioni (la voce fuori campo gestisce e asciuga bene tutte le domande iniziali) è corretta e crea nello spettatore una giusta sete di sapere. Tutto sino ad un certo punto, che potremmo indicare nel ventesimo minuto, dove all’improvviso si smarriscono i parametri di coerenza facendo precipitare tutta la storia in una specie di thriller/commedia senza un senso e una direzione condivisibile e appagante. Gli intrecci cercati scadono tristemente nel banale e tutto quel piccolo vortice percepito si trasforma in un leggerissimo e a tratti fastidioso venticello.
La cosa che colpisce, un film non per forza raggiunge i propri fini o mantiene le premesse create, è che la caduta, almeno nella percezione, è costante e vertiginosa. Non si ha mai più l’impressione che ci sia la possibilità di riprendere le redini emotive e visive di tutto il progetto. La fine, corollario di questo parapendio negativo cinematografico, è quanto di più inutile e aberrante si sarebbe potuto pensare e questo perché esce da qualsiasi logica del possibile. Alcuni snodi chiave, quelli che poi portano all’epilogo per intenderci, non solo sono lontani da una possibile realizzazione, ma assolutamente assurdi e irrealizzabili. Quello che dico sempre è che un qualsiasi plot anche il più estremo (per esempio, nei film di fantascienza) per essere vissuto deve avere anche un bagliore di possibilità. In questo caso, da un certo punto in poi, questa condizione svanisce e con lei, appunto, qualsiasi interesse o stimolo su messaggio e intenzioni. L’amore e il trasporto immotivato e che ti trascina alla fine ha perso il suo entusiasmo cosi tanto da essere quasi dimenticato. Quel viaggio che mi ero fatto su Il Danno, incredibilmente per come mi aveva attraversato, ai titoli di coda era praticamente svanito e ho dovuto faticare per riportarmelo alla mente. Stessa cosa sul senso della finzione e sulla realtà dei rapporti e della consuetudine, sciolte ancor prima che potessero istillare un pizzico di ragionamento.
Il cast è di quelli importanti, Steve Martin, Helena Bonham Carter e Laura Dern sono interpreti di un certo calibro e da loro ci si aspettava (e in un certo senso ci si aspetta) sempre qualcosa di solido. La cosa paradossale è che neanche sfigurano. Senza urlare a chissà quale prova, il senso dei loro personaggi lo danno e questo se ci si pensa, aggrava ancora di più l’idea generale del film. In pratica, l’inconsistenza diventa cosi importante da schiacciare qualsiasi cosa, anche se non di per sè malvagia.
Avevo una buona dose di aspettative su questo titolo. Non c’era assolutamente nulla che le suffragasse, nessun suggerimento o parola detta da qualcuno, solo un’idealizzazione immotivata e senza basi solide per un qualcosa che a pelle mi aveva intrigato. E’ come quando senza sapere nulla si è attratti dalla copertina di un disco o dall’illustrazione di un libro, ti crei un viaggio che ti porta ad essere soddisfatto ancor prima di sapere il contenuto. E’ ovvio che quando si crea questa pre-alchmia, l’eventuale fallimento fa in un po’ più rumore. E’ umano, naturale, incontrollabile. Novocaine questo rumore evidentemente lo ha fatto anche se poi, siamo onesti, proporzionato al contesto nel quale queste aspettative si erano inserite (non parliamo di un titolo che aspetti da un anno) e cioè, dandogli un’immagine reale, di una piccola ruga scontrosa che però scompare solo con qualche prurito pochi minuti.
La storia, e chiudendo, poi ci dirà che per David Atkins, in controtendenza alla sensazione di occasione persa citata all’inizio, non fu un inciampo, ma proprio un limite irreversibile di attenzione e capacita, cosa che agli albori del film, giustamente, non potevamo sapere.
Jonhdoe1978
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