Se oggi, 2025, ci chiedessero di citare alcuni titoli di Denis Villeneuve, tra le possibili variabili, non uscirebbe mai il nome de La donna che canta. Questo film, infatti, per qualche oscuro motivo (per esempio il Following di Nolan, suo esordio, ha avuto in proporzione negli anni molto più seguito) non è entrato nel gergo comune di discussione del regista pur essendo, e a mio avviso bisognerebbe farne una categoria a parte, uno di quei progetti con la fine più sorprendente di tutti i tempi. La ragione di tale “distacco”, sempre a mio avviso, è che l’ambientazione (ci troviamo nel Libano anni 80-90) non ha mai avuto e probabilmente mai avrà, un appeal emozionale e di immedesimazione completa per gli occidentali. E’ come se inconsciamente, una cultura tanto diversa non possa far parte completamente del nostro mondo e di conseguenza delle nostre fantasie. Altro elemento che può far storcere il naso è la recitazione, evidentemente molto basilare, e, almeno per l’Italia, il doppiaggio. La voce femminile di Jeanne Marwan, non capisco come non se ne possa accorgere, è completamente fuori contesto, al limite del sopportabile e questo alla lunga si accusa.
Limiti evidenziati, è indubbio che La donna che canta è pensato e strutturata bene (ricordiamo che è l’adattamento dell’opera teatrale di Wajdi Mouawad), la narrazione a puzzle è decisamente sensata e montante (nel senso che fa acquisire allo spettatore elementi su elementi in maniera corretta), e alla lunga riesce a farti superare le barriere di costumi (e di ritmo) di cui dicevo pocanzi, avvolgendoti e stordendoti (per il finale). Gli ultimi 15 minuti sono veramente il setaccio dell’anima e di come il caso e la vita certe volte decida di estremizzare il male e il dolore. Questi momenti al limite però, bisogna saperli raccontare, pena creare un solco emotivo tra possibilità/assimilazione degli eventi e pura e fredda fantasia creativa. Villeneuve è riuscito a bilanciare ogni secondo di questo switch incredibile e impensabile, mantenendolo nei confini della follia. In pratica, ha dato e donato il cuore del racconto non l’evento in se, trasformando l’aberrazione in un modo per confinare e moralizzare quel concetto che vuole che non sempre dal male può in eterno generarsi altro male. A un certo punto anche dal punto più nero si può aprire una luce e, di conseguenza, una speranza. Insomma, ha fatto una cosa difficilissima e visivamente ed emotivamente complicatissima.
Nel cammino verso la vittoria (solo di questo possiamo parlare) ha confermato quello che poi ammireremo in seguito: concretezza e la straordinaria capacità di narrare l’orrore con rispetto, ma senza sottrarre l’efferatezza. Tanto per fare un esempio e avvisando che qui c’è un piccolo spoiler, le scene dell’uccisione della bambina e, soprattutto, del primo stupro di Nawal mostrano come il regista abbia quella rara capacità di far gridare lo spettatore più per aver stimolato il gesto brutale nella sua testa che per averlo mostrato. Era molto più facile arricchire visivamente il momento, ma il risultato di pancia sarebbe stato diverso.
Altra cosa che alla lunga rapisce è il doppio filo temporale on the road che il film crea. Il percorso della madre (morale e fisico) verso la giustizia e la vendetta e quella dei figli, (anch’esso di corpo e anima) è gestito divinamente e ti mostra sia l’essenza di un popolo che il modo in cui esso è cambiato o meno. Quello che forse lascia qualche dubbio, qui entriamo all’interno della personale moralità, è dove questo viaggio porta. Tralasciando la conclusione, la domanda che si crea è: è giusto scavare cosi tanto nel passato quando apparentemente non ce ne’ più bisogno? In pratica, è corretto che la madre chieda ai propri figli (è l’incipit del film) di tirare fuori una verità postuma cosi scomoda e non magari portarsela nella tomba.
Personalmente credo che certi avvenimenti sia giusto non vengano mai a galla se non altro perché non aggiustano, anzi disattendono idee e sentimenti, ma nel caso specifico il messaggio voleva essere altro e quindi forse è giusto cosi. Intorno ai figli, infatti, e i primi minuti ce lo dicono bene, c’era rabbia e incomprensione, come se tutto il male del passato gli sia rimasto nelle vene. Scoprire la verità, per quanto travolgente, ha in qualche modo pulito lo sporco dando una piccola pedana lucida sulla quale provare a ripartire. Per carità, la reazione finale di Jeanne e Simon può apparire poco consona (sfido chiunque a non schiumare di rabbia), ma comunque congruente al percorso e al suo epilogo cercato nella storia.
Mea culpa. Sono uno di quelli che ha visto questo film per la prima volta ora e che lo ha scoperto per puro caso (essere presente in numerosi blog di settore anche a questo serve). Visto con il senno di poi non sembra nemmeno un film di Villeneuve, poche pause, poca concentrazione temporale di certi momenti e una narrazione (al contrario di quello che ci farà vedere dopo) continuamente frenetica, per quanto fatta bene. L’impressione è che tra il 2010, anno di uscita di questo film e il 2013, Prisoners ed Enemy, abbia fatto un percorso interno importante scremando le cose che gli piacevano da quelle dovute. Ad esempio, in La donna che canta c’è poco spazio per la metafora, cosa che invece diventerà quasi un marchio di fabbrica del suo cinema. Tutto questo, attenzione, non vuol dire che questa produzione non meriti, anzi, consiglio a tutti di recuperarla in qualche modo, garantendo che la fine vale cento volte la prima parte che per i motivi detti, non ti rapisce da subito.
Chiudo con una considerazione che mi ha martellato nella testa per diverse ore dopo la visione: quante volte abbiamo avuto l’impressione che certe cose che ci sono capitate rappresentassero quell’uno su mille di possibilità? Ecco, estremizzandolo, La donna che canta (titolo originale Incendies) ci narra di quell’uno su mille portandolo però, su un piano di morale complessiva (spezzare il cerchio del male) e non circoscrivendolo a puro e singolo evento. E vi posso assicurare che non è poco, neanche lontanamente.
Jonhdoe1978
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