
Una delle caratteristiche che accomuna tutte le religioni è quella di ritenere che all’interno di alcuni oggetti, ovviamente diversi a seconda delle credenze, si cieli un misterioso e potentissimo potere in grado, in alcuni casi, di influenzare anche il normale andamento della natura e della vita. Tale convinzione, nell’arco della storia, ha portato l’uomo, alla sua ennesima estremizzazione, al solo scopo di entrare nelle grazie della divinità rappresentativa dell’oggetto di turno, a dedicargli sacrifici e/o sottomissioni fisiche.
Shanghai 1935. Indiana Jones (Harrison Ford) si reca in un night club del luogo per effettuare uno scambio di reperti con il malavitoso Lao Che (Roy Chiao). Ma proprio mentre le cose sembravano andare per il verso giusto ne scaturisce una caccia a l’uomo che porta lo stesso archeologo, il suo piccolo amico Shorty (Jonathan Ke Quan) e la ballerina del locale, nonché compagna del gangster, Willie (Kate Capshaw) a cercare la fuga a bordo di un aereo. Peccato che quest’ultimo appartenga alla compagnia dello stesso Lao, con i piloti che sopra le montagne indiane lasciano il velivolo facendolo precipitare. Sopravvissuti miracolosamente, i tre si imbattono in alcuni abitanti di un pacifico villaggio che, sulla base di una vecchia credenza, chiedono il loro aiuto per sventare una pericolosa setta e riottenere la pietra sacra loro protettrice.
Questo film rientra nella mia personale categoria giovanile del “vedere in continuazione” e questo, a conti fatti, più per l’iperbole mentale ed emotiva che alcuni momenti mi procuravano che per una reale concretizzazione o appartenenza agli eventi. A differenza del suo genitore, I predatori dell’arca perduta, seppur trattasi in pratica di un prequel essendo i fatti anteriori di un anno rispetto al primo film, infatti, Indiana Jones e il tempio maledetto esce dallo schema del possibile entrando più nell’avventura fantasiosa. Quel limite (del possibile per intenderci), che il primo film era stato ben attento a non superare, in questo viene superato sin da subito mostrando come l’approccio voluto sia da George Lucas che Steven Spielberg sia stato completamente diverso. Lo stesso sfondo più angosciato e oscuro di questa seconda storia, segna proprio questa rottura narrativa tra i due film, che se da un lato ha escluso il rischio della ripetizione dall’altro lo ha collocato più su una linea parallela alla prima storia che a uno schema conseguenziale (stilisticamente non per eventi).
Quella che è rimasta intatta è la commistione equilibrata tra umorismo e avventura che ha i suoi picchi più alti nel pranzo a cui sono costretti i tre appena giunti al palazzo di Pankot e la corsa sfrenata all’interno della miniera, scena che ha poi dato spunto a numerosi altri film oltre che a vari momenti di moltissimi videogiochi dello stesso genere. Prima, in mezzo e dopo a questi, c’è da dirlo, una trama ondulante che però è riuscita con colpi di coda improvvisi a rimanere comunque in carreggiata permettendo alla storia di far arrivare il messaggio cercato. La prospettiva di vedere la stessa cosa, nel caso specifico la stessa divinità, in maniera tanto differente è la volontà di mostrare l’estremizzazione a cui l’uomo per definizione tende e di come ogni cosa cambia forma a seconda da come la si interpreta. Il dio Siva nel film, infatti, viene mostrato sia come spirito guida per una vita di prosperità e pace e che come arma per la sopraffazione e l’ingiustizia. Stessa diversificazione è stata fatta per la natura dell’anima dell’uomo che, in determinate condizioni al limite, può tirare fuori un’oscurità apparentemente impensabile. Anche la metafora della liberazione, la scelta del fuoco è stata a mio avviso intelligentissima, segue questo schema bilaterale: mostrare come esso, il fuoco, sia contemporaneamente il fondamento del culto barbaro e il mezzo necessario per rompere lo stesso incantesimo, infatti, ha rimarcato quella natura ambigua di cui il film, appunto, si è condito sin dall’inizio.
Lucas e Spielberg hanno avuto, insieme ai sceneggiatori Willard Huyck e Gloria Katz, a mio avviso, la “genialata” di staccare la storia dalla precedente evitando cosi inutili e come detto, pericolose sovrapposizioni. Dietro si sono portati, oltre alla magica combinazione narrativa, solo, ovviamente, il protagonista, Harrison Ford e l’inconfondibile motivetto di John Williams, il resto è stato tutto resettato: storia, prospettive e personaggi più o meno fondamentali. Tale scelta ha fatto si che si creasse ancor di più una perfetta assimilazione tra personaggio, trama e avventura colorando probabilmente l’idea ancora di più addirittura del primo film, che rimane comunque indubbiamente superiore. I sequel infatti, se gestiti male, hanno la capacità non tanto di sminuire il personaggio nell’ambito della spazio temporale nel quale è stato raccontato precedentemente, ma quanto nell’universo successivo derivato. Non sovrapporli territorialmente e storicamente ha, in qualche modo, sdoganato questa inevitabile verità concedendo a questo film, in rapporto al suo predecessore, un giudizio più autonomo e circoscritto.
Nonostante l’inclinazione emotiva, per i motivi esposti all’inizio, complessivamente, come detto, questo film è inferiore a I predatori dell’arca perduta, e lo è perché, a mio avviso, è diverso l’abbraccio complessivo. Il primo tendeva ad avvolgerti di un’aura mistica, si sentiva la possibilità spirituale e fisica di farne parte, in questo questa possibilità a tratti si smarrisce sostituita da del bellissimo puro intrattenimento. Le due cose, anche se possono tranquillamente andare di pari passo, sono diverse e secondo me segnano la differenza, assolutamente personale per carità, tra estetica ed estetica e anima.
Jonhdoe1978
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