Certe storie vanno lasciate li rinvigorite solo dal ricordo che ne abbiamo e possibili di sviluppi esclusivamente attraverso la nostra fantasia. Altre invece hanno bisogno, anche a distanza di tempo, di essere riproposte alla ricerca di un’anima che all’epoca non è stata completamente definita. Altre ancora, invece, si trovano nel mezzo, con un cuore chiaro ma possibile, se veramente lo si vuole, di un qualche approfondimento in più.
Sono passati 10 anni da quando Dexter, sopravvissuto all’uragano Laura, ha lasciato Miami e tutto quello che era. Da qualche tempo si è trasferito a Iron Lake, paese all’estremo nord di New York, dove, assumendo una nuova identità (Jim Lindsay), sta cercando di ricrearsi una vita tenendo a bada i propri istinti.
Quando usci ufficialmente la notizia che si sarebbe fatta una nuova stagione di Dexter ebbi istintivamente un brivido (di felicità) dietro la schiena e questo nonostante la chiara possibilità che la nuova produzione potesse non essere all’altezza delle precedenti. A dispetto delle numerose critiche, infatti, a me il finale del Dexter 1.0 era piaciuto (la solitudine ed il silenzio mi sembravano il giusto purgatorio per un’anima tormentata e folle come la sua) e non ho mai creduto, quindi, fosse necessaria una qualche appendice supplementare. Questo però non poteva in nessun modo intaccare l’adrenalina di rivedere di nuovo all’opera il mio “cattivo” preferito. E’ come quando pensi di non rivedere più una persona a cui hai voluto un mondo di bene e te la ritrovi davanti: l’opportunità non conta o meglio, magari conterà successivamente.
E cosi nell’esatto momento in cui la faccia di Michael C. Hall è apparsa sullo schermo mente e anima per qualche secondo, hanno trovato la loro pace insieme a un turbine di ricordi e sensazioni che mettere in ordine cronologico e di importanza è stato impossibile. Placata, almeno per come era iniziata, questa sete di immortalità, l’attenzione si è spostata sulla storia con il gioco quello che era e quello che è che, oltre che inevitabile, era abbastanza naturale. La sovrapposizione tra il nuovo scenario e il modo con cui ci si è arrivati (precisazione: impossibile vedere questa nuova stagione senza aver visto tutte le prime otto) ti tiene impegnato per le prime due puntate che infatti sembrano più una prefazione, o forse una carezza a dei vecchi amici, che altro. Dalla fine della seconda, infatti, inizia il vero nuovo percorso che a conti fatti non può essere minimamente paragonato al precedente perché è proprio un’altra cosa, un modo diverso di intendere personaggio e uomo. La prima grande differenza, e credo sia fondamentale per capire la reale motivazione di questo sequel, è il luogo in cui viene ambientato: Da Miami, luogo con moltissime persone e crimini e quindi nel quale era facile diventare anonimo, a Iron Lake, posto cosi piccolo dove tutti si conoscono e quindi per definizione “sconsigliato” a chi come hobby fa il serial killer. Già questo cambiamento ha fatto si che tutta l’attenzione e la trama si sviluppassero ancora di più del solito a livello psicologico (l’idea di riproporre Debby come una specie di Grillo Parlante è stata geniale) che di pura azione e adrenalina. Il nascosto dei gesti si è cosi trasformato quasi esclusivamente nel buio dell’anima con una destinazione, e questo è stato un merito, non sempre chiara e figlia del momento. Proprio la comparsa di Harrison (Jack Alcott) per Dexter assomiglia più a un ritorno al passato che una prospettiva per il futuro. E’ come se il filo delle sue (come delle nostre) scelte non abbia mai la possibilità di staccarsi nonostante il tentativo (ad alcuni riesce) di reinventarsi e riscriversi. Il rapporto padre/figlio (nonostante la condivisione) cosi diventa una sorta di specchio del proprio io, di quel demone insaziabile che necessita del proprio sacrificio per continuare a dare respiro e lucidità. Questa parte riflessiva, con la meravigliosa solita voce fuori campo a indirizzarci nei pensieri del nostro protagonista, viene, a mio avviso, un po’ troppo sovrastata da una trama troppo piena di spunti. I nemici e le situazioni contro Dexter, a un certo punto, sono cosi tante che l’attenzione viene messa a dura prova cosi come le prospettive derivanti dalle soluzioni. Parliamoci chiaro, più si infittisce la trama più la mia, ma potrei dire nostra, capacità di prevedere come potrebbe uscirne diventa fantasiosa con una rassegnazione al peggio che dall’inizio della nona puntata diventa sempre più pressante e pesante. In quel momento l’incoerenza di questa nuova storia (i buchi e le forzature sono abbastanza evidenti) vengono sostituite da un altro tipo di sensazione che ha a che fare solo con l’empatia e il coinvolgimento. L’onda lunga dell’affinità irrazionale per un assassino, come detto placata dopo la prima puntata in nome di un’analitica visione, riprende le redini della situazione trascinandosi in un “immorale” tifo perché tutto si sistemi e che nessuno tocchi il nostro angelo nero. Dexter proprio per il suo modo di essere e, diciamocelo, per quel codice comunque non ritenuto cosi strampalato, ci ha sempre cinto di un’ammaliante sensazione come se in lui giusto e sbagliato non avessero sempre la stessa definizione che normalmente riconosciamo. Ed è per questo che quando ha infranto in maniera cosi roboante proprio quel codice (Anton) qualcosa in noi si è inclinato, ed è probabilmente quello che volevano gli autori. Il buio si è fatto più buio e la fuga percepita cosi luminosa e poco coerente con il sottile agire del personaggio che sarebbe stata sentita lontana e soprattutto, non degna di tutto il viaggio.
Tutta la stagione è girata benissimo e interpretata altrettanto bene ma Michael C. Hall è di nuovo una spanna sopra tutto e tutti. Il suo agire, agevolato di nuovo da quell’ipnotico classico motivetto musicale, è sempre ammaliante e stimolante con un’intensità altissima figlia di quella sovrapposizione tra ricordo e presente che non era assolutamente scontata. In lui si legge la voglia di voler interpretare di nuovo Dexter Morgan e non solo una trovata mediatica per ritornare nel giro.
Dexter anche in questo caso, ovviamente quale continuazione emotiva di quello che ci aveva lasciato, riesce a invertire il senso del giusto, conducendoci in un mondo dove le regole vengono riscritte man mano. Il fatto che nel momento della sua fine tutto il mondo venga a conoscenza di quello che aveva fatto se da una parte mostra l’eterna ironia tra la vita e la morte dall’altra cerca di far combaciare la giustizia conosciuta con quella che invece lui ha sempre seguito. Un uomo così oscuro, tecnicamente, non poteva farla franca, era necessario che pagasse con il prezzo più alto ristabilendo un equilibrio apparente. Ora credo che tutti saranno contenti avendo la scelta di decidere a quale fine appellarsi: il silenzio del boscaiolo o la lettera postuma di un uomo intriso (metafora anche questa) nel suo sangue. Nonostante la circolarità che questa nona stagione abbia voluto rappresentare io rimango attaccato a quella barca verso l’uragano con quel silenzio assordante quale pena di un peso troppo grande. E non ci proponessero un sequel con Harrison…sarebbe penoso e irrispettoso.
Jonhdoe1978
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