Prima dell’arrivo dei satelliti e delle mappe virtuali la navigazione avveniva da parte del capitano e del suo equipaggio, a vista, seppur con l’aiuto, in molti casi, delle carte nautiche trascritte. Per aiutare tale tipo navigazione in delle piccole isole vennero messi dei grandi fari continui onde segnalare cosi, già in lontananza, la presenza di acque meno profonde e soprattutto, di pericolosi scogli. Tali luoghi necessitavano di continue manutenzioni e controlli e cosi nacque la figura del guardiano del faro.
Thomas Wake (William Dafoe) è da tempo il custode di un faro nel mare del New England. Per le prossime quattro settimane come aiutante, gli viene affiancato Ephraim Winslow (Robert Pattinson), alla prima esperienza per tale tipo di ruolo.
Quando un regista al suo esordio è autore di un film originale e sorprendente la curiosità e l’attesa per il suo lavoro successivo è alta, una specie di prova del nove sulle sue idee e capacità. E il giovane Robert Eggers non ha tradito queste aspettative riuscendo, anzi, con The Lighthouse a fare un ulteriore passo avanti in termine di costruzione e capacità narrativa.
Quello che salta subito all’occhio in questo film, in linea con quanto accaduto con The Witch, è il modo sbalorditivo con cui attraverso uno sviluppo narrativo estremamente lineare riesce a creare tensione e coinvolgimento. Nel caso specifico, l’utilizzo del bianco e nero ha favorito tale processo dando profondità, tragicità e soprattutto, epicità a tutti i gesti, per quanto apparentemente semplici e familiari, dei due protagonisti. L’uso insistito di primi piani e di immagini ferme, insieme a una colonna sonora che definirei pressante, ha reso ancora più pesanti e significativi i dialoghi (peraltro come nel primo lavoro scritti da lui) dandogli ancor di più un senso metafisico e da leggenda. D’altronde tutto il film è una serie infinita di leggende o di rimandi che si intersecano ma che, a mio avviso, trovano una loro personale e originale dimensione. Il rimando a Edgar Allan Poe e al mito di Perseo e Promoteo è, infatti, abbastanza evidente, ma ciò non toglie che sia più il mezzo per arrivare al messaggio che il vero e proprio messaggio. La ricerca della conoscenza e della sua condivisione, vero scopo della storia di Promoteo, infatti, lascia spazio a un percorso diverso che riguarda il senso di solitudine e disperazione che certi situazioni possono creare legate, come spesso accade, a un passato burrascoso e pieno di sbagli. Cosi con il passare dei minuti, man mano che Ephraim Winslow svela i motivi per cui ha accettato questo lavoro, l’impressione è che quest’isola lontana non sia altro che una specie di limbo per il protagonista, un purgatorio nel quale espiare colpe e mancanze. Questo processo, per quanto lento, è riuscito a dare i suoi frutti per grande parte del tempo sfociando poi nell’angoscia e nella follia (con tanto di omaggio a Shining) nell’esatto momento in cui tale avventura non aveva più una scadenza. Il fatto che la tempesta non ha consentito, almeno per quello che ci raccontano, alla nave di venirlo a riprendere e non sapendo quando e se sarebbe successo, è come se avesse strappato definitivamente quel senso di dignità e auto conservazione, peraltro molto labile, in cui si era nascosto.
In questo preciso momento il film cambia completamente ritmo soverchiando e cambiando sia il ruolo dei due protagonisti che il suo senso stesso, dandone una dimensione più metafisica e personale. Il messaggio o il significato di The Lighthouse, infatti, non può essere univoco e preciso e questo per la possibile diversa interpretazioni che si può dare a certe situazioni cambiandone tutto il senso generale. E questo non è assolutamente, come molte volte successo in altre produzioni, un limite in quanto la sua stessa genesi da sin da subito, la sensazione di qualcosa di sospeso, di una storia che galleggia tra la finzione, la follia e la realtà.
Pur apprezzando il lavoro di William Dafoe, solido e adatto al duplice ruolo di aguzzino prima e vittima dopo, è innegabile che il vero protagonista è Robert Pattinson. La sua prova è semplicemente, e aggiungerei sorprendentemente, straordinaria confermando ancora una volta come le nomination agli Oscar non siamo più lo specchio vero del cinema. Il suo personaggio è inquietante e misterioso, disperato e ambizioso, cupo e feroce. E questo in un’escalation interpretativa che si trascina dietro tutto il film accentuandone profondità, suggestione e drammaticità.
La percezione che si ha di questo film, come detto, è mutevole figlia, a mio avviso, dell’intenzione del suo autore di creare domande e risposte legate più alla sensibilità personale che a verità oggettive. I vari capovolgimenti delle situazioni portano lo spettatore a restare in molti casi spiazzato, avventurandosi in teorie anche bizzarre cercando qua e la elementi a conferma di esse. Quella che ho pensato io sin dai primi minuti è di una sorta di Figth Club dell’ottocento con i due personaggi che in realtà erano uno solo, quale coscienza e follia di Ephraim, confermando quella sensazione di espiazione momentanea di cui si parlava prima. Questa mia tesi, cosi però come quella che segue la lineare storia tragica dei due personaggi, trova il suo senso nella parte finale in una bivorcazione, se non trivorcazione, di possibilità chiaramente cercata dal regista e coerente con l’idea di partenza. In essa troviamo il culmine metafisico ed estremamente allegorico della vicenda che ci racconta della disperazione, della fuga da stesso e dall’impossibilità alcune volte di fronteggiare le proprie debolezze e le proprie azioni, rimanendone accecato e folgorato. Ed è questo il motivo per cui non viene mostrato quello che il protagonista vede negli ultimi attimi: ognuno ha i suoi demoni da affrontare e le sue battaglie da combattere il cui esito distingue la differenza tra follia e rinsavimento.
Jonhdoe1978
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