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Love Story (1970) di Jonhdoe1978

Contrassegnato con: cinema, Love Story, Recensione Love Story

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Mi hanno sempre affascinato i college americani. Hanno una struttura e un modo di vivere la specializzazione formativa in modo completamente differente da quello che conosco. Quasi fossero un mondo nel mondo, dove ognuno può coltivare e affinare la propria personalità, o trovarne una.

Oliver Barrett IV (Ryan O’Neal) discendente di una ricca e facoltosa famiglia, studia a Harvard con l’aspirazione di diventare  avvocato. Un giorno, in biblioteca, dove la ragazza lavora, incontra Jennifer Cavalleri (Ali MacGraw) giovane studentessa di musica.

Colpo di fulmine, affinità, pelle, chiamiamola come vogliamo, ma è comunque quella sensazione che senza che te ne accorgi, ti invade, occupandoti mente e cuore. Da questa premessa, Arthur Hiller e Erich Segal, autore di soggetto e sceneggiatura, cuciono un racconto struggente, delicato, profondo, dalle tinte forti, con un contorno sociale tipico degli anni ’70, fatto di differenze e origini. Il ricco con il povero, infatti, era ancora considerata una scelta sbagliata, affrettata, in nome di una società dove il più facoltoso subordinava il sentimento alla ricchezza quale mezzo di discriminazione.
In questo contesto si muovono Oliver e Jennifer, con la loro passione, il loro irrefrenabile trasporto, il loro modo di vivere il mondo nell’esatto istante in cui la ragione e il sentimento parlano la stessa lingua, trovando il loro punto di congiunzione. E lo fanno nell’unico modo che conoscono, stringendosi, in barba ai consigli, all’universo che gli gira intorno, ai soldi e alla pioggia. In quello stesso momento, inconsciamente, trovano la linea che li ha uniti, trovando quella indispensabilità che va oltre ogni apparenza, ogni parola detta, ogni oltre vento che possa travolgerli superato semplicemente, stringendosi le mani.

Devo essere onesto, il film trova tutta la sua magia, la sua disperazione negli ultimi trenta minuti. Nella prima parte c’era un sospeso, dovuto probabilmente dai primissimi secondi, che ha messo un’ombra su ogni scena, un alone che ti faceva vedere sfocato quei momenti di puro amore, tra sguardi e difficoltà. L’ultima parte unisce tutti i punti, anzi li travolge completamente cosi come i sensi nel vederli, un nodo che ti attanaglia, ti fa stringere lenzuolo e gomiti, facendoti perdere per un momento i punti di riferimento.

Le storie, i film, i libri, il teatro, hanno un’unica grande funzione, l’immedesimazione. Quello è il fine ultimo di ogni opera, la sua grande aspirazione, quel tentativo di entrare nell’animo di chi la guarda. E questo vale indifferentemente che sia una commedia, un dramma, un fantasy o una storia per bambini.
Nello specifico, ci sono momenti in cui vorresti mettere pausa al film, fermarti, respirare, e questo nel mentre in cui pensi cosa avresti fatto, con quale Dio te la saresti presa, a quale parte della vita avresti dato calci e questo cercando disperatamente, un modo non farti sprofondare nel buio, nonostante ne avresti una gran voglia.
Oliver lo fa nel suo modo, quello di rispetto, trascinando la sua anima e perdendone un pezzo che a ogni passo, con la consapevolezza che non lo riprenderà più. Si accontenta delle briciole, di quelle piccole parti che gli sono rimaste attaccate e che gli hanno fatto strappare orgoglio e convinzioni nel momento in cui torna dal padre Oliver Barrett III (Ray Milland) per chiedere soldi allo scopo di donare e donarsi altro tempo, tanti piccoli secondi indispensabili.

Entrambi gli attori, Ryan O’Neal e Ali MacGraw, sono stati candidati agli Oscar nelle loro rispettive categorie, ma mentre per lei la prova è stata costante e solida in ogni sua parte, non altrettanto si può dire per lui. A tratti è sembrato forzato, non mostrando quella naturalezza che il momento contingente necessitava. Una fantastica ultima parte, lo redime si, ma non può cancellare delle pecche evidenti. Avvolgente la colonna sonora, quella Francis Lai (premio Oscar) che ci accompagnerà in ogni momento del film, donandogli una maggiore intensità e trasporto, con quel crampo allo stomaco che comprare involontario già alle prime note.

Fra tutte c’è una scena che per me rappresenta tutto il film: Oliver e Jennifer sdraiati, lei sul petto di lui, intenti a leggere i rispettivi libri per gli esami che dovevano sostenere. Pochi secondi di poesia, di perfetta sintonia in cui far combaciare il proprio io, mai cosi complementare come in quel momento. Un atto di tenerezza, di fiducia, in cui non hai nessuna barriera, nessun filtro e ti metti completamente nelle mani dell’altro sapendo, non solo, di non essere in pericolo, ma di essere al sicuro da tutto.

Esistono momenti che ti cambiano la vita. Ma anche la fine peggiore non cancella ne l’inizio ne il percorso. Sono sensazione che si portano dentro e che senza ombra di dubbio influenzeranno le scelte future. Nel caso specifico, Oliver si ritroverà nella stessa panchina dove Jennifer lo guardava pattinare, con intorno la neve. Neve che entrambi avevano amato e mangiato per gioco quando il loro cuore stava diventando come due rette parallele che avevano però, la specificità di incontrarsi.
Un incontro che resterà eterno a prescindere da cosa la vita deciderà di preservargli e che lui deciderà di prendere, con la costante inevitabile che sarà sempre Jennifer ad addormentarlo, dolcemente, ogni notte.

Jonhdoe1978

 

Love Story

Love Story
7.5

Valutazione Complessiva

7.5/10

SCHEDA

  • Regia: Arthur Hiller
  • Anno: 1970
  • Durata: 99'
  • Genere: Drammatico

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