L’adattamento cinematografico di un libro d’inchiesta è sempre complicato, implica la trasposizione di tante situazioni in un format che, per definizione, è più limitato. I tempi cambiano, cosi come la possibilità di portare a termine in maniera compiuta, tutte le dinamiche che si vengono a creare.
Elena McMahon (Anne Hathaway) è una giornalista d’assalto che cerca, insieme alla collega Alma Guerrero (Rosie Perez), di scoprire come e chi c’è dietro il rifornimento continuo di armi nel Centro America, in particolare a El Salvador. Ferita a morte, torna negli Stati Uniti e spostata dal proprio capo (essendo scomoda) a raccontare delle imminenti elezione presidenziali. Durante il suo primo giro intorno ai candidati, viene contattata dal padre, Richard (Willem Dafoe) che le racconta il grande affare che sta per concludere, tale che gli avrebbe sistemato la vita. Prima di portarlo a termine, Richard, ha un malore che gli provoca amnesie e difficolta di movimento e Elena (venuta a sapere dei tanti debiti da lui contratti) decide di aiutarlo e sostituirsi a lui nell’affare.
Come mi è capitato già di dire non è indispensabile leggere il libro prima di vedere un film che ad esso si ispira. La storia già di per se, può essere intrigante e ammaliante e questo a prescindere dal valore del proprio “padre”. Ci sono stati tanti bei film ispirati a libri mediocri e tanti brutti film ispirati a libri eccezionali. Non esiste una regola generale, pensarla diversamente è una contraddizione concettuale.
Detto questo, Il mio ultimo desiderio si trova esattamente al centro di tale percorso. E’ un film ambizioso, intriso di angoscia e di personaggi diversi, per personalità, sensibilità, profondità e finalità. Dal mio punto di vista è diviso un due nette parti, che si distinguono soprattutto per la facilità di comprensione. La prima è all’altezza della situazione con uno sviluppo narrativo a scatole ma perfettamente comprensibile, con tutti i pezzi della scacchiera chiari e ben definiti. Poi succede che la coperta risulta essere troppo corta, ci si è dilungati troppo (dal punto di vista della regista) nel mostrare le carte, e il tempo rimasto per raccontare tutte le diverse implicazione, rimane poco. E qui viene fatto l’errore più grande che si possa fare: si dice tutto troppo veloce, facendo perdere spesso, i meridiani emozionali. Mi spiego. Non parliamo solo di un film d’inchiesta ma di un film che va a raccontare molte sfumature emotive, dalla solitudine alla famiglia, dalla solidarietà all’arrivismo, dall’amicizia all’angoscia. Ed è proprio qui che in gran parte si perde, non riuscendo a mostrare interamente le tantissime sfaccettature della personalità di Elena, tanto fragile quando incrollabile e ben confinata dietro a uno scudo che possa proteggerla da un mondo che l’ha colpita in tutti i modi immaginabili. Questo taglio scelto, quello di incentrare tutto sulla protagonista, non ha fatto risaltare tutti i personaggi che le sono girati intorno, per quanto fondamentali. Ma mentre Willem Dafoe dall’alto del suo avere sempre un impatto decisivo, a prescindere dal tempo concesso, è riuscito a lasciare una traccia, Ben Affleck (nei panni di Treat Morrison, classico politicante atto a lavare i panni sporchi) è ridotto a poco più di una macchietta, non essendo, da sempre, in grado di prendersi la scena se non adeguatamente apparecchiata.
La regia è solida, utilizza molto i primi piani, nel chiaro tentativo di sfruttare l’enorme espressività della protagonista, un Anne Hathaway che conferma, ancora una volta, la sua continua crescita come attrice di spessore e non solo di apparenza. La sua Elena è coraggiosa, al limite del commovente, nella continua ricerca di una verità scomoda e che riesce a colpirla nelle viscere, lasciandola spesso senza fiato. La sua prova è, in lunghi tratti, la salvezza del film, soprattutto nella parte in cui si incarta su stesso nel tentativo, confuso, di raccontarci le numerose dinamiche della situazione. Una situazione enorme, che parte dall’alto per arrivare a ogni singola pedina, all’interno di uno schema di opportunità sbandierate dietro il vessillo della ragion di Stato.
La parte finale, a mio avviso, risolleva circa 45 minuti di corsa contro il tempo rappresentati come un’enorme centrifuga di eventi a cui si fa veramente, fatica a stare dietro. In tale parte, invece, ci si è presi il giusto tempo, e questo, oltre alla solita Hathaway, grazie a un ottimo Toby Jones (nei panni del ricco Paul Schuster) a cui credo, sia stato dato poco risalto, per quello che ha rappresentato: la speranza di Elena.
Un film ad incastro, che ha alternato momenti coinvolgenti a momenti confusi, intricati più di una ragnatela che non si è riusciti a gestire, mostrando con cura ogni singola tela. A volte si è andati per intuizione. I continui flashback, come presa di coscienza di Elena di quello che realmente stesse succedendo, non sono stati sempre illuminanti dando invece l’impressione di pensieri appesi e fine a se stessi. Questo però, non ha impedito di mostrarci, con tutti i limiti elencati, una storia graffiante che ha fatto emergere la distinzione tra realtà e speranze, tra sentimenti e freddezza, tra giusto e sbagliato e tra potere e umanità.
Jonhdoe1978
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