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Il Settimo Sigillo (1957) di Jonhdoe1978

Contrassegnato con: cinema, Il Settimo Sigillo, Recensione Il Settimo Sigillo

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La nostra vita è un susseguirsi di domande, a volte riguardanti avvenimenti vicini a noi, a volte invece, molto lontani da quelle che consideriamo la nostra reale situazione. Quello che li differenzia è soltanto, la percezione che ne abbiamo, in base a esperienza, importanza e soprattutto convinzione, anche in base all’età.

Il nobile cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e il suo scudiero Jons (Gunnar Björnstrand) sono appena tornati nel loro paese, sconvolto dalla peste, dalle crociate in Terra Santa. Appena giunti sulla spiaggia ad accogliere il cavaliere c’è la Morte (Bengt Ekerot), pronta a prenderne anima e corpo. Antonius, nel tentativo di rinviare tale evento, le chiede di giocare a scacchi, proponendo come premio, in caso di vincita, la propria salvezza. Ella accetta.

Ingmar Bergman sceglie il medioevo per raccontarci la sua opera più intimista, onirica, legata alla percezione di Dio e alle sue ripercussione sulla nostra vita. Per farla usa un tracciato a imbuto, facendo partire tutti i personaggi da una linea comune per poi farli scivolare, piano piano, verso l’uscita, ognuno con le proprie radicate convinzioni. In questo percorso, scosceso, buio, con l’ombra dell’inevitabile abisso da contorno, troviamo tutti i dubbi dell’uomo, sulla propria natura, sulla propria funzione e sul perché di tale percorso. Il regista parte da una premessa: la Morte è nell’ombra, sempre, il suo odore, la sua sagoma, sono percettibili come una goccia di pioggia prima di un uragano. Da questa, con il suo Cavaliere che prova l’ultima mossa per dare qualche giorno in più di aria ai suoi polmoni, dipana tutti i protagonisti, diversi di animo, attitudine, sogni, in quel grande circolo della vita, con la sua relatività legata sempre e solo ai sentimenti.

Cosi troviamo colui, Antonius, stretto sino alla fine alla speranza che il divino si mostri, perdonandolo e mostrandogli la sua onnipotenza, proteggendolo e salvandolo. Jons con il suo estremo materialismo di chi crede solo e soltanto in quello che vede, tocca e percepisce. Il gioco perverso tra il fabbro e la moglie, in quell’alone di superficiale e di scherno del proprio intimo, messo sotto scacco da un attore intento a soddisfare sole le sue voglie. Jof (Nils Poppe), Mia (Bibi Andersson) e il piccolo Mikael, come simbolo di redenzione, speranza, metafora della sacra famiglia, da cui poter ricominciare e quindi da difendere, tanto da essere l’ultimo estremo gesto del nostro Cavaliere nel momento in cui perde la sua partita.
Già la partita a scacchi, con quella contrapposizione tra bianco e nero, due colori agli antipodi che poi per forza di cose, a tratti, si mischiano, sparendo e mescolandosi.

Bergman è autore di una regia assoluta, struggente, intensa. L’impressione è che a ogni inquadratura ci abbia messo l’anima con tutti i suoi dubbi e le sue domande. Il soggetto l’ha pensato e scritto di suo pugno e la sensazione è che non sia stato semplice, una sofferenza lenta insieme a un’intensa introspezione che è andata a toccare contemporaneamente la sua parte più buia e quella più pura. Quasi una mano metaforicamente tremante in quelle immagine ferme, tenute, di cui il film è condito, trovando un gioco di luci dove i colori di produzione erano assenti.
Il suo capolavoro, però, l’ha raggiunto nel momento del ritorno al castello, in quel bussare lontano, la faccia attonita e rassegnata del suo scudiere nel dire che non era nessuno, per poi ritrovarsi di nuovo l’impersonificazione della Morte davanti, con la sua fredda inevitabilità. Un momento in cui credo, si sia fermato più volte per guardare in faccia i suoi protagonisti immaginari oltre che scritti e fare la conta dei suoi controsensi, delle possibilità, delle scelte e dell’imprevedibilità del prevedibile.
Il gioco tra la Morte e la peste, che nel racconto è presente e inesorabile, è una splendida metafora di come anche se la seconda sia un mezzo per la prima,  quest’ultima riesce, sempre, a prendersi i suoi tempi, come un’alterazione perenne di se stessa, in grado di trasformarsi in tanti piccoli pezzi, ognuno quasi, con la sua personalità, tanto da scegliere modi e parole diverse.

Ho lasciato volutamente, per ultime, due figure che apparentemente marginali, a mio parere, sono state il collante e il riassunto del pensiero del suo autore: La strega e La donna muta.
La prima è la rappresentazione della superstizione, di come una volontà può essere piegata e inculcata se tutti ti reputano tale. Lei alla fine vede il diavolo anche se non c’è, in quel concetto di personalizzazione radicata nella spersonalizzazione del pensiero, di fronte alla fragilità e alla paura.
La seconda è la donna che Jons si tira dietro per tutto il viaggio, nel quale non dice neanche una parola, se pur, più volte, si racconta con gesti e con gli occhi. Dirà una sola frase, nel momento in cui la Morte si avvicina, con volto pregante, estasiato, come se quello fosse il momento della sua vita, ricongiungerci con qualcosa di superiore, puro, eterno.
Due mondi cosi distanti per concetto, stile, sensazione, percezione, che si incontrano per un breve istante come due infiniti che riescono a sfiorarsi in quel gioco eterno delle possibilità.

Ingmar Bergman è stato un sognatore, direi un sadico del sogno. Nelle tenebre del suo racconto non ha fatto altro che disseminare speranze, secondo il suo modo contrastante di vedere le cose. Non dà nessuna risposta, mette nel piatto tutto quello che sone le ideologie dell’uomo e le mescola mostrando sole e luna, luce e ombra, oscurità e eternità.
Nella macabra tanto poetica danza finale, vista sola dall’illuminato Jof, c’è la sua cupidigia nel credere che ci si possa prendere beffa della Morte, sino alla fine, in quel percorso intimo che ogni uomo fa alla ricerca perenne di un fiore colorato anche nella grotta più buia.

Jonhdoe1978

Il Settimo Sigillo

Il Settimo Sigillo
8

Valutazione Complessiva

8.0/10

SCHEDA

  • Regia: Ingmar Bergman
  • Anno: 1957
  • Durata: 96'
  • Genere: Drammatico

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