
Una schermaglia a suon di conoscenza, cordialità, errori commessi e rimpianti.
Il club degli imperatori, pellicola del 2002 diretta da Michael Hoffman, è un dramma dai toni dolceamari, capace di trattare con cura lo spettatore e scortarlo lungo il percorso narrativo che gli propone.
Malgrado un inizio molto simile e l’iconografia pubblicitaria che ne ha veicolato l’uscita, The Emperor’s Club (il titolo originale) non è L’attimo fuggente di Peter Weir. Anzi. Il costante paragone tra le due pellicole ha, secondo me, sia danneggiato il film di Hoffman e, in secondo luogo, dimostrato che chi li paragona non ha capito nulla o del primo, o del secondo…o, molto più probabilmente, di entrambi. Il club degli imperatori e L’attimo fuggente sono due pellicole “parallele” che, abbandonati i territori comuni di partenza, viaggiano per la loro strada senza incontrarsi mai più.
Nel film di Hoffman si può anzitutto assaporare una vena pedagogica, intesa come valore, che nel più blasonato film di Weir è nascosta dalla perpetua contrapposizione tra autorità e autorevolezza e poi ha dalla sua il fatto far uso delle intese visivo-narrative della più tranquillizzante commedia americana (totalmente assenti in quello di Weir), per raccontare la crudeltà e l’insanabilità del male che, nel caso specifico, viene associato al mondo della politica. Bada bene però: non si tratta di un sermone contro la compagine governativa americana. Il messaggio che si vuole lasciar passare riguarda più la considerazione che si ha del potere (di qualsiasi genere), spesso considerato al di là di qualunque valore etico o morale e che conti unicamente raggiungerlo, per poi utilizzarlo (eventualmente) per scopi utili alla società.
Il club degli imperatori ha poi come tema principale l’idea che il carattere sia il principale determinante del destino dell’uomo e che lo stesso sia modificabile, ma solo a prezzo di fatica e dedizione. Per tutti i 109’ della durata del film, ci troviamo davanti a due “Visioni” del mondo tra i cui poli i vari personaggi sembrano oscillare costantemente: da una parte c’è quella che punta, come prima cosa, al raggiungimento dei propri obiettivi individuali; dall’altra ce n’è una più conforme a quelli che “dovrebbero” essere i valori civici di rispetto della comunità e dei propri doveri.
Infine, una sostanziale differenza sta nei suoi principali protagonisti: Il professor John Keating del rimpianto Robin Williams scombussolava il sangue e gli umori dei suoi sbarazzini studenti, descrivendo loro infiniti mondi, alternativi ai limitati spazi in cui il college li costringeva; il professor William Hundert di Kevin Kline, invece, nel rapporto con i suoi ragazzi è un paladino delle regole e della disciplina. Il processo educativo del primo avanzava per contaminazione, infettando i “germi del sapere” con i “germi del piacere”, mentre quello del secondo è dottrinale, inderogabile e vincolante. Quel “fuoco” che elargiva l’illusione che la giovinezza non sarebbe morta tra i muri di scuola, viene sostituito dall’intransigente durezza degli aforismi dei classici latini e greci.
Se L’attimo fuggente viene considerato appartenente alla categoria dei film di “istruzione”, allora Il club degli imperatori è, incredibilmente, da considerarsi appartenente alla categoria della “distruzione”. Bella la devozione all’insegnamento del protagonista ed il suo senso di fallimento quando gli alunni non rendono al massimo, o non percepiscono i principi cardine dell’istruzione, quali l’onestà e la passione per il sapere…ma se lo stesso protagonista è convinto che il suo ruolo sia quello di “plasmare” gli studenti ed il fatto che il libero pensiero debba necessariamente piegarsi al potere, è quanto di più sbagliato si possa comunicare in un film del genere, o in generale. Il ribelle Sedgewick Bell (Emile Hirsch) stronzo era da ragazzino e stronzo resta da adulto, ma non si può considerare un fallito o un poco di buono chi non dimostra interesse per le materie scolastiche. Nella vita si impara da tutto e da tutti…e non solo dai libri.
Snocciolati uno ad uno i motivi per cui ritengo che sia sbagliatissimo paragonare le due pellicole, sarebbe anche ora di analizzare tecnicamente in sé il film di Hoffman che, così come il suo Hundert ama ed insegna il mondo classico, fa del suo marchio di fabbrica la “classicità”. Il regista si mette al totale servizio della storia, raccontandola nel modo più lineare possibile ed aiutandosi con canonici espedienti retorici quando è necessario. Ma se la prima parte del film, in cui Hoffman riesce a tenere le redini del discorso e ad appassionare, risulta abbastanza riuscita ed efficace, l’equilibrio del tutto si perde quando la storia si sposta ai giorni nostri. Nella seconda parte il regista non riesce più a gestire e raccontare il grande impiego emozionale richiesto dalle vicende, perdendosi sia dal punto di vista del ritmo che da quello narrativo.
Anche sul piano della caratterizzazione dei personaggi e della loro psicologia la pellicola lascia molto a desiderare. Fatta eccezione per Hundert e di Bell, i restanti personaggi risultano figure stereotipate e poco approfondite, spesso inserite in situazioni appena abbozzate che lasciano sconcertati, nonostante facciano parte del cast anche Paul Dano e Jesse Eisenberg, due dei migliori prodotti della loro generazione insieme proprio ad Hirsch.
Kline viaggia un paio di spanne sopra tutti, dimostrandosi ammaliante ed autoritario nel ruolo del professor Hundert.
Un film “nato per piacere”, ma che se scandagliato come merita dimostra di essere tutt’altro rispetto a quello che il suo lancio promozionale ha voluto far passare.
Alessandrocon2esse


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