
Ormai viviamo in un mondo veloce e globale e, a questa banale quanto semplice regola, non poteva sottrarsi neanche l’industria cinematografica. Oggi infatti, un film a prescindere da nazionalità e genere, viaggia nell’etere a velocità impressionante, riuscendo a raggiungere in un attimo, milioni di persone. Prima tale situazione era impensabile e una produzione, non di prima fascia, ci metteva mesi, sempre se ci riusciva, ad uscire dai suoi confini.
Goreng (Iván Massagué) si sottopone spontaneamente alla sperimentazione di un nuovo tipo di prigione, detta la fossa, di cui non conosce l’esatto funzionamento. Essa, non è altro che una struttura verticale, composta da tanti livelli uniti da un buco centrale che serve per far passare ogni giorno una piattaforma piena di cibo.
Quest’ultima, parte dal piano zero scendendo ogni pochi minuti, da un livello all’altro, utili a ogni ospite per mangiare tutto quello che può, con il risultato che i piani più bassi mangeranno man mano, gli avanzi degli altri, sempre se ne rimangono.
Ogni piano è composto da due persone che ogni mese, insieme, vengono spostate in maniera casuale in una nuova posizione , a patto, però, che entrambi sopravvivano.
Goreng si risveglierà, la prima volta, al quarantottesimo insieme a Trimagasi (Zorion Eguileor), strano e ripetitivo uomo che deve scontare 12 mesi per omicidio colposo.
C’è stato molto rumore, almeno inizialmente, intorno a questo film, dovuto sia per i diversi commenti dedicati che per l’intrigante immagine che lo rappresentava. Come spesso mi capita in casi del genere, sono stato lontano da qualsiasi tipo di scritto a riguardo, ritrovandomi quindi, all’inizio della proiezione completamente vergine su trama e dinamiche.
Il Buco è un complesso film metaforico che trova però nella sua linearità il suo limite. Mi spiego. La prima parte della storia, quella relativa alle spiegazioni, è magnetica, intrigante, d’impatto, riesce a far immergere lo spettatore, immediatamente, nelle nuove dinamiche, per quanto folli. Da li in poi è un crogiolarsi sull’idea iniziale, arricchendola di troppe sotto trame che poi non vengono approfondite e a cui, a volte, non viene data risposta.
E’ evidente la denuncia sociale, con la differenza che qui non si distingue tra ricchi o poveri, ma sulla posizione del momento nella scala gerarchica della vita. E quindi abbiamo che anche colui che conosce bene i limiti e le sofferenze dei piani bassi (a cui arriva pochissimo cibo, se arriva) nel momento in cui sale non ha nessuna pietà, pensando esclusivamente al suo tornaconto. Di fronte al bisogno estremo, in questo caso rappresentato dal cibo, ogni uomo tende a perdere la coscienza del prossimo, visto solo come una minaccia per se stesso o addirittura una risorsa. Sotto quest’ultimo punto di vista si spiega l’istinto primario del cannibalismo, estremo gesto della sopravvivenza e a cui non si sottrae neanche il nostro protagonista, Goreng.
Trovo che questo film ha troppi limiti di trama. Ci sono troppe cose, come detto, a cui non ha risposto. Prima fra tutte la stessa funzionalità e motivazione di tale esperimento. A ogni persona che entra viene chiesto di portarsi un oggetto, senza esclusione di scelta, coltelli e spade comprese. Come si può immaginare, in una situazione limite come questa che poi non vengano utilizzate? E’ una specie di selezione naturale quasi obbligata. Chi si trova nel duecentocinquantesimo livello ha una sola scelta (non arrivando neanche una briciola di pane) da fare: morire di fame insieme al suo compagno o nutrirsi di lui. Nel film viene rappresentata una terza scelta, Goreng, come oggetto ha scelto un libro e ritrovandosi da solo, decide di non nutrirsi del suo compagno morto (cosa che poi aveva già fatto in precedenza) ma solo delle pagine di quello stesso libro. L’immagine è stata quasi quella di rappresentare la passione di Cristo, l’enorme sofferenza della rinuncia in nome di un valore superiore.
Impressione confermata nella parte finale. La discesa di Goreng e Baharat (Emilio Buale Coka) ha i lineamenti neanche troppo nascosti, di Dante e Virgilio nella costante e perenne cammino nelle parti più basse dell’inferno, nel vano tentativo di trovare un equilibrio che posso garantire il cibo a tutti i livelli. Inferno rappresentato dall’ultimo piano, il 333 che moltiplicato per due (gli ospiti possibili) fa 666, notoriamente accostato al diavolo e a tutte le sue derivazioni. Qui trovano la bambina di cui tanto si è parlato nel film, una specie di controsenso in termini, un sasso in mezzo a una tavola imbandita, il numero per far saltare il banco. Il bene contro il male, la speranza contro il buio, la luce in fondo a un interminabile tunnel che non si ha certezza di poter raggiungere.
Il buco ha senza ombra di dubbio molte mancanze ma il risultato generale è buono cosi come in lunghi tratti, lo svolgimento. Sicuramente coraggiosa e ambiziosa l’idea, uno sviluppo empirico del Il cubo, seppur con un messaggio finale completamente diverso. Il sacrificio senza certezza, l’affidarsi alla purezza e all’innocenza, credendo possibile andare oltre l’istinto e la follia, con la fede del perdono come messaggio atto a interrompere, senza dimenticare, la brutale routine selettiva, pena, in caso di fallimento, far ripartire il tutto all’infinito, esattamente come in un girone dantesco.
Jonhdoe1978
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