
I sogni sono la nostra parte più intima, uno dei pochi momenti in cui non abbiamo filtri consentendo ai nostri pensieri di fluire liberamente. Sostanzialmente ne esistono di due tipi: quelli legati ai ricordi arricchiti però di elementi nuovi e contemporanei e quelli che possiamo riassumere come costruzioni figurate e mai vissute sia nei contenuti che nei luoghi. Entrambi hanno, però, l’indubbia caratteristica di assecondare il nostro desiderio per qualcuno o qualcosa o comunque, e questo forse è il terzo tipo, per farci vedere e vivere attimi che potrebbero accadere.
Siamo nell’undicesimo millennio e il pianeta Arrakis, detto anche Dune, è sotto il controllo della crudele casata degli Harkonnen. I Fremen, gli abitanti del luogo, cercano di combatterli in ogni modo sino a quando, senza un apparente motivo, l’Imperatore gli toglie l’egemonia e il comando sostituendoli con la casata Atreides, la cui popolarità nell’impero è in forte ascesa. Il compito di questi ultimi, come per i precedenti, sotto la supervisone del suo Duca Leto (Oscar Isaac), è di estrarre la “spezia”, il materiale più importante dell’universo, che rende appunto questo pianeta il più importante dell’impero. Il nuovo insediamento sembra procedere bene, nonostante le continue visioni del figlio del Duca Paul (Timothée Chalamet), dotato grazie alla madre di poteri percettivi superiori, sino a quando, improvvisamente, l’esercito imperiale insieme agli stessi Harkonnen decide di attaccarli.
Nonostante siano stati fatti più di un adattamento cinematografico dell’omonimo libro del 1965 di Frank Herbert, vedi quello del 1970 di Alejandro Jodorowsky o delle due miniserie del 2000 e 2003, nel momento in cui si è parlato della possibilità di un nuovo rifacimento di Dune la mente e l’attenzione si è focalizzata subito all’opera del 1984 di David Lynch. La motivazione va ricercata più che nella portata del film, le cui lacune narrative e di limitazione temporali imposte allo stesso Lynch sono note, nel fatto che più delle altre opere, quel del 1970 è ovviamente troppo lontana, è stata quella che ha dato la dimensione reale di quello che voleva essere il cuore del racconto. Senza entrare nello specifico delle differenze tra queste due opere, nonostante le ovvie libertà prese dai due registi, è necessario specificare che quella in oggetto ha una valenza artistica ed emotiva nettamente superiore al suo predecessore e questo per almeno due motivi: la chiarezza nella narrazione degli eventi e la magia introspettiva che Dennis Villeneuve è riuscito a raggiungere sin da subito. Mentre però la prima differenza, come detto, è stata dovuta dall’obbligo della produzione del’’84 a tagliare il progetto iniziale di Linch di oltre tre ore, ridotte a poco più di due, la seconda è figlia proprio di una scelta e di un approccio completamente diverso. L’aver reso tutto il racconto più cupo e a tratti rallentato, avendo a disposizione due parti poteva permetterselo, ha creato un alone di misticismo surreale che ha consentito allo spettatore di immergersi completamente in ogni scena. Man mano che i minuti passavano, infatti, si viene rapiti dall’atmosfera di quel mondo tanto lontano quanto vicino come se all’improvviso la sensibilità di alcuni momenti attraversino il tempo e lo spazio accartocciando e cancellando differenze e irrealizzabilità. Soprattutto l’apparente debolezza di Paul, un bravissimo Timothée Chalamet, insieme al suo modo soffice e catartico di immaginare e vedere il possibile futuro, fa in modo di provocare, in chi lo guarda, un senso ondulatorio di percezione che va dall’azione pure all’ascesi e alla ricerca dell’equilibrio. Questo sottile gioco, oltre a stimolare continuamente l’attenzione, rende sempre interessante e coinvolgente ogni istante rendendo cosi le oltre due ore e mezza poco più di un cortometraggio e questo nonostante la non chiusura della storia. La capacità di Dennis Villeneuve di raccontare l’immenso e l’intimo, già dimostrata in Enemy, Blade Runner 2049 e soprattutto in Arrival, in Dune trova la sua quasi perfezione. La maestria con cui si barcamena tra questi due mondi, immenso e intimo appunto, che per definizione sono antitetici, dimostra, infatti, non solo una bravura tecnica, aiutata anche dai mezzi, ma una capacità di estrarre energia assolutamente fuori dalla norma. Entrando nel particolare, meraviglioso il modo con cui riesce a mettere al centro del racconto Chani (Zendaya), quale musa ispiratrice di libertà, ribellione e amore, senza che, se non nella parte finale, ci sia mai. Ha creato quella sorta di limbo tra l’idea e la realizzazione utile non solo a creare l’attesa, ma proprio il cuore spirituale di tutta la storia.
Il cast sulla carta è di livello assoluto e si dimostra tale anche alla prova dei fatti, con gli attori perfettamente a loro agio nei vari ruoli assegnatigli. Su tutti, come detto, e non perché è il protagonista, Timothée Chalamet, che sta acquisendo film dopo film una padronanza scenica degna di un veterano.
Dune è un film pieno. Ti riempie minuto dopo minuto dandoti una sensazione di appagamento e di bellezza senza tentennamenti e questo nonostante il fatto che non ha una fine vera e propria. La motivazione a mio avviso, sta nella percezione di conclusione, seppur parziale, che l’attimo finale ha. Mi spiego. Tutta questa prima parte gira volente o nolente su Chani e sul suo essere amuleto o snodo della personalità di Paul o meglio, lo strumento verso la sua definizione morale e sentimentale. Nel momento che si incontrano inconsciamente, si ha l’impressione di chiusura di un cerchio e questo nonostante la piena coscienza che da allora un altro e lungo filone narrativo si sarebbe aperto.
Ora normalmente ci sarebbe da dire che per un giudizio completo bisogna aspettare il capitolo due. In questo caso, invece, mi sento di dire che tale dubbio non ci sia e che il livello sarà perlomeno lo stesso con possibilità, e non mi sorprenderebbe, di alcuni ulteriori picchi sia visivi che emozionali. D’altronde Villeneuve sino ad oggi ha dimostrato di non essere in grado di raccontare una storia senza in qualche modo prendere a pugni l’anima e non ho elementi per dire che anche nel secondo capitolo non ci riuscirà, come d’altronde ha sempre fatto in tutti i suoi lavori.
Jonhdoe1978
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