
Cosa significa che un film è profondo e coraggioso? Quali sono gli elementi oggettivi che ne permettono tale assimilazione? Ovviamente le mie sono domande ipotetiche e retoriche, ma sono quelle che mi hanno accompagnato prima e dopo aver visto per la prima volta Crash – Contatto fisico. Il motivo non è cervellotico come potrebbe sembrare, ma derivava dal continuo accomuno che avevo sentito di quelle parole a questo film. Dopo un po’ di tempo mi sono dato la mia risposta, i parametri per ogni definizione sono sempre personali e ognuno armonizza l’intensità di un significato per quello che è il suo essere, che, in questo caso, può sintetizzarsi semplicemente con: Profondo si, coraggioso no.
Non esiste una trama per questo titolo, o meglio esiste ed è… tutto il film. 36 ore tra ricordo e azioni nel quale si intersecano diverse persone e diverse storie alla ricerca di un filo che unisca le loro vite e, probabilmente, l’esistenza umana in generale. Di solito in racconti a cosi largo spettro l’intenzione è di andare a braccio, cercando quel tutto che permetta a ogni spettatore di trovare il suo angolo di vita, con il coinvolgimento che aumenta e con lui le possibilità che il messaggio arrivi. Nel caso specifico credo che il risultato sia stata parzialmente raggiunto, un po’ come tutto il film.
Parto da una considerazione, la prima che mi è venuta in mente subito dopo i titoli di coda (ovviamente insieme al profondo e coraggioso di cui sopra): non serviva Paul Haggis, al suo primo film nel doppio ruolo regista/sceneggiatore, per dirci che da uno stesso evento possono derivare diverse conseguenze, con un effetto domino spesso travolgente e imprevedibile. Se il cuore della storia fosse stato solo questo ci saremmo trovati di fronte alla copia di molte altre pellicole, alcune delle quali fatte anche meglio. E invece tale presupposto, o meglio considerazione, serve per sviscerare molti altri temi che vanno dal razzismo alla solitudine, dalla frustrazione alla autoanalisi, dal destino alle scelte sbagliate/giuste.
Haggis è riuscito, partendo dal primo elemento, a non banalizzare il concetto di razzismo portandolo su un terreno molto più sottile e reale e che ha a che fare con l’ignoranza e l’onda sociale/personale. A conferma di ciò, c’è il duplice volto del sergente John Ryan (Matt Dillon) che se da un lato abusa del suo potere per sfogare le sue frustrazioni con la prima coppia di colore che incontra, dall’altro non ci pensa due volte a buttarsi nel fuoco per salvare propria la donna che aveva poche ore prima “molestato”. In questo modo la forma di razzismo che si vuole denunciare è, quindi, di tutt’altra natura, peraltro poi confermata da tutte le altre storie del film. Basti pensare all’accusa di “attentatori” fatta alla famiglia persiana.
Se delle ripercussioni cause/effetto abbiamo già detto, mi preme sottolineare il ruolo del destino e della solitudine evidenziata più volte nel film. Il primo viene affrontato quasi malinconicamente, come se in qualche modo, e lo è, esso rappresenti gran parte della nostra vita. Un secondo prima e un secondo dopo fanno tutta la differenza del mondo e possono cambiare ogni prospettiva e/o scelta (questa è una delle cose che il film alla fine accomuna ad ogni personaggio). Preponderante anche il tema della solitudine, l’utilizzo continuo degli sguardi quello è, l’incontro silenzioso di anime faganti che molto spesso nonostante l’affinità non fanno quasi nulla per evitarla. Il senso del discorso iniziale del Det. Graham Waters sull’assenza del contatto fisico, questo vuole sinterizzare. Quella distanza quasi irreale che abbiamo tra di noi, persi in ragionamenti e distrazioni più o meno importanti e che ci rende quasi degli estranei, con un senso di superficialità che con il tempo neanche sentiamo più sbagliato. E siamo cosi ormai succubi e assuefatti che anche l’evento più traumatico o fuori ordine non ci crea rotture o drammi e ci riporta quasi totalmente a quello che eravamo prima di esso. Questo senso quasi immutabile, nonostante qualche bagliore di redenzione, è asfissiante in Crash e c’è da capire se voluto oppure se la scrittura non sia riuscita ad arrivare dove voleva. Io credo entrambi, perché se da un lato c’è l’elemento rassegnazione/omologazione al proprio status, dall’altro gli elementi di rottura, assolutamente presenti, non arrivano per quello che dovrebbero.
Tirando le file di tutto quello appena detto, Crash è senza ombra di dubbio un film interessante ma non cosi avvolgente come premi e botteghino potrebbero far pensare. Non nascondo la mia convinzione che il valore degli “avversari” abbia aiutato tali assegnazioni e che di fronte a qualcosa di più corposo non avrebbe avuto molte opportunità.
Una piccola postilla, e con questo concludo, sulla gestione della fine. Credo fortemente che essa abbia la grande virtù di lasciare tutto aperto e in divenire, in perfetto stile vita reale. Un racconto, infatti, non deve per forza di cosa avere una conclusione roboante o definitiva per comunicare quello che aveva da dire e questa ne è un perfetto esempio. Se ci si pensa, tranne Peter, ogni sottostoria non vuole altro che rappresentare o un nuovo inizio o la prosecuzione più o meno migliore di quando che è già stato, con un continuo cosi labile che ognuno può tranquillamente plasmarlo come desidera. E questa scelta non mi è sembrata un modo per lavarsene le mani e non dire nulla, solo rispettare l’andamento imprevedibile e incerto della vita in generale.
Jonhdoe1978
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