Il tempo è la variabile che unisce e allontana i rapporti.
Un tema classico quello su cui si regge la semplice sceneggiatura di Che ora è, ambiziosa e crepuscolare pellicola del 1989 scritta e diretta da Ettore Scola che porta sul grande schermo la cronaca dell’incontro tra un padre sessantenne ed un figlio quasi trentenne che conoscono poco l’uno dell’altro e passano insieme un’intera giornata d’Inverno a Civitavecchia, piccola città in cui il giovane sta ultimando il servizio militare.
Un film-conversazione che tratta un argomento forte, quello dell’incomunicabilità nei rapporti genitore/figlio e tra due generazioni diverse, probabilmente già troppo descritto e “spremuto” al cinema, ma con un punto di vista differente, originale e (per la prima volta) in modo diretto, con una sceneggiatura che quasi ambisce ad obiettivi psicanalitici d’atmosfera.
Spesso, prima di iniziare una recensione, mi ritrovo a chiedermi che cosa occorre ad un film per essere definito tale e non finire in breve tempo nel dimenticatoio. In Che ora è la risposta sta tutta nella scelta dei due protagonisti, non a caso premiati a Venezia con una doppia Coppa Volpi vinta ex aequo. Il regista campano, pur dimostrando una certa pigrizia registica e (parecchia) banale consuetudine nella rappresentazione della parola, trova una “vena d’oro” nelle interpretazioni del rappresentante del glorioso passato del cinema del dopoguerra Marcello Mastroianni ed un attore-regista in piena ascesa quale Massimo Troisi.
Il primo, in virtù della sua appurata grazia ed eleganza è praticamente perfetto nei panni del ricco avvocato sessantenne, estroverso e consapevole dei propri mezzi che comincia a credere di aver sbagliato tutto come genitore ed il secondo, seppur palesemente fuori età per il ruolo, riesce alla sua consapevole e dolce schiettezza recitativa e a quella gestualità timida e semplice, a dare un’anima al personaggio di Michele, figlio insicuro, anticonsumista, dal carattere schivo e riservato e carico di risentimento per essere stato trascurato dal padre. Sebbene il film si basi esclusivamente su un continuo dialogo tra i due, affidato ad una situazione più che ad un intreccio, è proprio per merito del loro talento che si fa seguire piacevolmente fino alla fine. Il sorriso di Troisi che, dopo l’ultima discussione decide di salutare il padre chiedendogli “Che ora è?”, riprendendo il gioco che faceva da piccolo con il nonno, vale l’intera visione.
Che ora è ha, nonostante la ricchezza di spunti, sottofondi e scatti continui d’umore, un andamento allentato ed oscillante. Il film di Scola non nasce con l’intenzione di estasiare, bensì con quella di lasciarsi afferrare. Non si avvale di intrecci e/o ragnatele e si diverte a giocare con passaggi psicologici e simbolici.
Lo scopo di Scola è quello di pubblicare lo spaccato di due uomini diversi, tra visioni di vite discordanti e agli antipodi. Ogni dialogo tra i due protagonisti scritto dal regista, insieme con la figlia Silvia Scola e Beatrice Ravaglioli, si fa intelligente e degno dell’attenzione del pubblico che viene accompagnato in una coinvolgente atmosfera, aiutata anche dalle musiche del maestro Armando Trovajoli che sfocia in un’ultima, silenziosa e lunga inquadratura finale in cui i due hanno realizzato almeno in parte il loro desiderio di conoscere i reciproci sentimenti, ma che lascia pensare a un futuro in cui uno maggiore altruismo e l’altro ancor più dubbi di prima.
Dopo essere stato Marcello Rubini, figlio del “perfetto padre” ne La dolce vita di Federico Fellini, a Mastroianni è toccato il naturale processo evolutivo cinematografico, anche se con abiti molto più scomodi di quelli che furono di Annibale Ninchi e con un confronto sul palco delle verità molto più dettagliato.
Non posso (ancora) parlarne in prima persona, poiché mi manca metà della torta, ma per chi ha vissuto l’esperienza di essere sia padre che figlio allo stesso tempo, ha sicuramente (più del sottoscritto) assaporato centinaia di volte quell’imbarazzo che fa da muro per le confessioni più profonde: tra padri e figli sembra sempre l’ora giusta per essere sinceri l’uno con l’altro, ma poi ci si ritrova sempre a non esserlo del tutto, come quando alla domanda “Che ora è?” si tende sempre ad approssimare l’orario per eccesso o per difetto.
Alessandrocon2esse
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