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Blade Runner 2049 (2017) di Jonhdoe1978

Contrassegnato con: Blade Runner 2049, Blade Runner 2049 Recensione, Recensione Blade Runner 2049

Blade Runner 2049 Interna

Dopo l’uscita della Final Cut, con quel finale molto più indeciso e possibilista del film originale, si sono intensificate le voci di un possibile sequel di Blade Runner. Lo stesso Scott, negli anni, ha parlato molto spesso di questa evenienza, seppur diviso nella scelta di una storia pre o post gli eventi della Los Angeles del 2019. Il progetto rimase in sospeso sino al 2015, quando la Warner Bros ruppe gli indugi affidando la sceneggiatura a Hampton Fancher (avallato dallo stesso Scott) e Michael Green e la regia a Denis Villeneuve. Soprattutto la scelta di quest’ultimo, nonostante una serie di film riuscitissimi dalla sua parte, lasciava qualche dubbio tra pubblico e critica, soprattutto in considerazione dello stile diversissimo rispetto a Scott, il paragone sarebbe stato inevitabile. Personalmente credo che il regista canadese abbia fatto un lavoro straordinario, sfruttando quelle che sono le sue peculiarità e riuscendo, esattamente come il suo dirimpettaio 41 anni fa, a evitare un pericoloso 0 a 0 (termine metaforico che si riferisce al poco coraggio). Ma andiamo con ordine.

Blade Runner 2049 inizia più o meno nello stesso modo del primo: una categoria di persone, chiamate appunto Blade Runner, che sono alla ricerca dei vecchi modelli di replicanti per eliminarli. La differenza è che stavolta, dichiaratamente, uno di questi cacciatori, il più importante, è a sua volta un replicante.

Premessa d’obbligo: era possibile costruire una trama senza la presenza di Harrison Ford? La risposta è senza dubbio, si. Ma sarebbe stata la stessa cosa? Anche in questo caso, senza dubbio, no. Il motivo è molto semplice e va ricercato nella dimensione quasi onirica con cui è sempre stato percepito il personaggio. In pratica, un Blade Runner senza Deckard, anche senza essere sempre fisicamente presente (come poi è successo), avrebbe perso molto delle sue prerogative e quindi molto della sua motivazione. Altra domanda: ma non sarebbe stato il caso di lasciare di nuovo il ponte di comando a Ridley Scott? La risposta, anche in questo caso senza tentennamenti, è: no. Purtroppo negli anni il regista britannico ha perso molto del suo smalto e si sarebbe rischiato, un po’ come successo con Prometheus prima e in parte con Alien: Covenant, un “incartamento” concettuale e di idee. Serviva necessariamente qualcuno che avesse ben chiaro l’obiettivo (e non il ripetere vecchie glorie) e uno stile tra il fresco e l’illuminato. Cosa che è appunto riuscita, arriviamo al punto lasciato in sospeso, a Villeneuve. Egli ha mantenuto in pieno il suo stile arioso, dai colori sfocati e dalle riprese apertissime, regalandoci una Los Angeles completamente diversa da quella che avevamo visto, ma altrettanto coinvolgente e, soprattutto, attendibile. Ma la migliore riuscita di questo film è stata quella di non fare di tutta l’erba un fascio creando più livelli di pensiero all’interno della stessa famiglia, armonizzandone cosi il significato. In pratica, ed è la stessa cosa che il film dell’82 era riuscito a fare, non ci si è limitati a dire che all’interno di una stessa specie (in questo caso parliamo maggiormente di replicanti) esistono i buoni o i cattivi, ma che la riproduzione dell’uomo, anche in maniera sintetica, non può in nessun modo evitare l’evoluzione della stessa sua indole. E cosi, il replicante replicherà le variabili umane, aumentate, e qui sta la magia della fantascienza quando fatta bene, da uno sfondo grottesco e oltre lo schema che conosciamo. Gran parte del merito di questo risultato, a mio avviso, sta nell’introduzione della figura di Joi (Ana de Armas), che oltre a essere protagonista di una scena cinematograficamente meravigliosa (la sovrapposizione con la prostituta), è la perfetta fotografia di come a qualsiasi livello gli impulsi del comportamento umano, anche quelli, come in questo caso, derivati, portano sempre al legame e all’amore. Possiamo tranquillamente dire che il rapporto tra Joe (agente K non mi piace) e Joi ha le stesse stigmate di quello del primo film tra Deckard e Rachel. Certo manca la fisicità, ma il significato morale e spirituale è lo stesso: l’amore è incontrollabile e infinito.

Se questo vale nello specifico, è chiaro che quello che doveva funzionare era la storia in genere e di certo non si può dire che non lo abbia fatto. La matassa è intrecciata senza esagerazioni e quindi l’usufruibilità in perfetta dimensione della portata che doveva avere il film. Certo (questo è un evidente spoiler), che una replicante sia riuscita a partorire è un’evidente iperbole, ma è servita ad arrivare, senza considerare la brillante idea di farla morire in tale momento, a quel concetto di evoluzione e umanità a cui evidentemente si aspirava.

Nonostante il successo e due premi Oscar, Miglior Fotografia e Migliori effetti Speciali, il film ha ricevuto qualche critica e soprattutto, nonostante un notevole incasso, qualche guadagno in meno rispetto a quello che ci si aspettava. Scott (e qui confermo le mie attuali perplessità su di lui) ha detto che la colpa sta tutta nella durata e lentezza del film e che sarebbe stato necessario tagliere almeno 30 minuti. La mia idea è che il film va benissimo cosi, ma non si può pensare che possa essere per tutti. L’idea, per quanto usufruibile, e lo stesso discorso valeva anche per il primo film, ha un fondo di complessità che non può attirare qualsiasi persona. Parliamo sempre di alter ego, di anima, di cuore costruito che batte come un’originale, di scintilla esistenziale, di passione ideale e sognatrice e tutto all’interno di un ambiente, in questo caso molto di più del genitore, ovattato, enorme, silenzioso e solitario. C’è a chi quest’atmosfera piace e a chi no, semplice e aggiungerei assolutamente nella logica.

Prima di arrivare alla conclusione e all’ultima questione (la più importante?), due parole sul cast. Date a Ryan Gosling un personaggio in sottrazione e avrete un ritorno eccezionale. La sua faccia ha la capacità di essere espressiva di suo e quando ci sono pochi dialoghi tale caratteristica si esalta e il film con lei. Pur non amandola particolarmente, ho trovato l’interpretazione di Ana de Armas veramente importante. Il suo ruolo come detto, era quasi vitale e lei è riuscita, appunto, a dargli vita.

Ma arriviamo al punto numero uno: Deckard è un replicante oppure no? Nessuno ce lo dice, lo stesso Niander Wallace (Jared Leto) prima dice di si e poi ritratta, e anche gli stessi autori sono in disaccordo tra di loro. Ford dice di si, Scott che non è detto e Villeneuve che proprio questo dilemma è una delle fortune del franchise. Personalmente, pur avendo una tendenza al fatto che non lo sia, credo che proprio questa incertezza, evidentemente cercata nelle versioni successive del film dell’82, crei una magia superiore a tutta la storia, dando a seconda della tendenza un significato diverso alla trama. La linea di continuità tra le due versioni è rappresentata comunque dalla trasversalità dell’amore (ed è questo il motivo che mi fa propendere per il no, sapere Rachel un replicante e Deckard un umano ne aumenta inevitabilmente la portata) e dal senso inutile che il tempo ha su di esso.

Per come la storia si è conclusa non è da escludere, anzi, un altro sequel, solo che stavolta la rottura con il passato è inevitabile e quindi, per come la vedo io, molto pericolosa. L’incognita di produzione cervellotica c’è e come sempre, si corre il rischio, cosa non successa in questo sequel, di ammorbidire la portata dei film precedenti, cosa concettualmente non giusta ma emotivamente inevitabile.
Non ci resta che aspettare.

Jonhdoe1978

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Blade Runner 2049

Blade Runner 2049
7.9

Valutazione Complessiva

7.9/10

SCHEDA

  • Regia: Denis Villeneuve
  • Anno: 2017
  • Durata: 163'
  • Genere: Fantascienza

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