
La storia del cinema è piena di versione estese e directory cut, ma quello che è successo con Blade Runner non ha assolutamente precedenti. Sette (dico sette) versioni diverse tra tagli, aggiunte, reinterpretazioni e finali alternativi. Fra tutte, l’apice della distanza la assumono la prima versione, quella dell’82 e con la quale il film è diventato quello che è e la Final Cut del 2007. Prima di entrare nelle differenze (impossibile non farlo) e nelle similitudini è bene precisare che entrambe queste versioni sono state pienamente avallate da Ridley Scott.
Quale è, come appena detto, il motivo per cui è impossibile non entrare nelle diversità di questi due film? Semplice, perché, a mio avviso, si tratta quasi di due opere diverse. Nella prima, tanto per cominciare, c’è la voce del protagonista fuori campo che molto spesso ci spiega dinamiche e pensieri, mentre nella seconda non c’è. E’ molto facile capire che in questo modo sia completamente diverso l’approccio dello spettatore che da puro usufruitore diventa quasi interprete. Le voci chiarificatrici diventano così silenzi che in quanto tali vanno, appunto, interpretati e che di conseguenza lasciano libera espressione all’intima fantasia, sempre, ovviamente, seguendo l’onda del film. Personalmente, scegliere quale delle due sia la migliore mi è complicato. Io sono cresciuto con la voce di Harrison Ford che mi guidava, ma non posso non ammettere che in certe situazioni, vedi dopo la morte di Roy, il silenzio è preferibile, con gli occhi di Deckard quale sunto perfetto tra sorpresa e comprensione.
Ma se questa diversità è interpretabile, rappresentando in parte una scelta di campo, di certo non lo è l’impostazione della fine. Le due conclusioni sono cosi diverse che non possono non trasformare il messaggio complessivo. Insinuare il dubbio (come sempre se non avete visto il/i film fermatevi) che lo stesso investigatore sia un replicante, in un certo senso mina il senso di amore trasversale e a prescindere che invece la conclusione dell’originale voleva mandare. Certo rafforza il fatto che la conoscenza o meglio, il non sapere non può in nessun modo alterare i sentimenti, ma di certo ne cambia almeno la prospettiva. Anche l’approccio al tempo, in questo caso a quanto rimane, si trasforma, passando da una possibilità positiva a una certezza, non dico negativa, ma sicuramente agrodolce. In questo caso, rimango legato alla scelta esplicita e felice (forse per affetto), nonostante una vicinanza di pensiero più alla visione chiaroscura.
Comune, invece, a tutte le versioni, e quindi anche a le due prese in analisi, il senso del discorso Roy e quindi del cuore del film.
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»
In queste parole c’è tutta la disperazione e la consapevolezza di una grande e inevitabile verità: nel momento in cui ce ne andiamo ci portiamo via con noi tutti i nostri ricordi che, in ogni caso, sono unici e irripetibili. Il fatto poi che per lui siano così roboanti ed estremi non è stato altro che un modo per rendere, appunto, estremo il concetto e quindi il senso stesso della storia. La pesantezza di questa verità, se ci pensiamo quasi banale, diventa un macigno se, come in questo caso, la si estranea dal concetto di affetti e di vivere nel ricordo di chi rimane. In questo caso, infatti, non c’è quello scivolo e l’idea era di rappresentare il singolo essere e quindi quella considerazione che vede i fotogrammi di tutte le esperienze vissute, che in un lampo diventano, appunto, nulla.
Ogni film di fantascienza al futuro, sceglie una data e poi ci cuce la storia. Come già successo diverse volte, 2001 Odissea nello Spazio su tutti, quando poi arriva davvero quell’anno ci sembra strano e vagamente nostalgico. Blade Runner è ambientato nella Los Angeles del 2019 (consideriamo che la storia è liberamente ispirato al romando Il cacciatore di androidi del 1968 di Philip K. Dick) e viene rappresentata in modo tetro, con una forte demarcazione tra ricchi e popolo. Le varie abitazioni, infatti, si distinguono nettamente, quasi che non ci sia un livello intermedio, ma solo un continuo bianco e nero. Questo, ovviamente, ha esaltato il tono noir cercato da Scott e quell’inseguimento nel e all’oscurità evidentemente voluto.
Come già accaduto con Alien, il film anche oggi (quindi a distanza di 41 anni) visivamente regge benissimo. Certo, non possono non notarsi le enormi differenze con la CGI moderna, ma non cosi tanto come si possa immaginare. Questo, a mio avviso, rimarca ancora di più (discorso già fatto con Alien) lo stile illuminato del suo autore, che non si può non considerare a tutti gli effetti uno dei padri della fantascienza per come la conosciamo ora.
Piccola curiosità che apre la strada al discorso attori, che poi manifesta come per la riuscita di qualcosa non è per forza necessaria l’empatia: Harrison Ford e Ridley Scott non si sono mai presi. Solo da pochi anni, e forse per l’età che avanza, hanno ammorbidito le loro posizioni sulla fatica reciproca nel lavorare con l’altro. Entrando nello specifico, credo che questa non sia tra le interpretazioni migliori di Ford e che le prove di Rutger Hauer e Sean Young (Rachael) siano state, per motivi diversi, più profonde e coinvolgenti.
Per questa chiusura, rimango sul film originale dell’82. Sin dalla prima volta mi ha trasmesso un senso di fallimento e contemporaneamente speranza come pochi altri. A prescindere dal come, la senzienza e l’istinto portano sempre all’autoconservazione e alla ricerca di un modo per soggiogare la morte. Che poi la scelta di come farlo diventa soggettiva è tutto un altro discorso e Blade Runner ha cercato di raccontarci i due estremi. Chi, come Roy lo fa con la violenza e l’assillo di cercare la pentola magica e chi, vedi Rachael e (estendendo il concetto alle versioni successive) Deckard, rifugiandosi nell’amore e negli attimi da vivere. E’ chiaro che concettualmente esistono milioni di scelte intermedie, ma questo indirizzo di certo fa più rumore, seppur dall’alto di una delicatezza narrativa trovata dal suo autore. Proprio questa caratteristica (e per altri motivi anche per Alien) ha fatto si che questa storia raggiungesse l’elemento essenziale per la riuscita di un film del genere: la possibilità. Come ho più volte sostenuto, anche l’idea più estrema necessita di degli elementi vicini che permettano cosi allo spettatore di sentirli suoi, se manca questo tutto il castello cade e l’empatia si trasforma in un fermo, anche se bellissimo, susseguirsi di semplici immagini.
Jonhdoe1978
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