
In quasi ogni film, ci sono delle storie nascoste da raccontare, un dietro le quinte, una retrospettiva di fronte a un concetto o a un messaggio che si vuole esprimere. Ma quello che negli anni si è creato intorno a ogni opera di Kubrick non ha e non credo, avrà precedenti nella storia del cinema.
In una Londra di un futuro non meglio specificato, vive il giovane Alexander “Alex” DeLarge (Malcolm McDowell), studente di giorno e capo, di notte, della banda criminale dei Drughi, di cui fanno anche, parte Dim (Warren Clarke), Georgie Boy (James Marcus) e Pete (Michael Tarn).
Le loro attività consistono nel picchiare, derubare, distruggere e stuprare, senza alcuna distinzione, in quel concetto di Ultraviolenza alimentato dall’utilizzo di lattepiù, latte modificato con sostanze stupefacenti, tipico del Korova Milk Bar, luogo di partenza e ritrovo della banda.
Sulla base del romanzo di Anthony Burgess, Stanley Kubrick cuce una storia grottesca, visionaria, ambientata in un spazio che non può avere una collocazione storico-temporale, essendo perfettamente adattabile allora come oggi. Un racconto che si addentra dentro le pieghe della società, delimitandone limiti, carenze, superficialità e soprattutto opportunità, definita come predisposizione al controllo.
E lo fa attraverso tre momenti narrativi, che pur se inevitabilmente collegati, hanno caratteristiche, finalità e dinamiche ben distinte.
Nella prima c’è l’incoerenza giovanile, la completa assenza di valori in nome dell’istinto più bieco, senza freni, come l’attuazione di tutto quello che la mente e il corpo ordina, senza nessun filtro. La mancanza di punti di riferimento e di rispetto sia per le cose che, soprattutto, per le persone, intesa come pure merce da prendere, depredare e usare per il puro piacere di realizzare le proprie fantasie, mentali e fisiche. Tale modo di agire e pensare lo ritroviamo anche, sia nel momento in cui Alex detta la sua supremazia su gli altri membri del gruppo sia e soprattutto, nel momento in cui quest’ultimi lo tradiscono condannandolo alla perdizione del carcere.
Da questo passaggio inizia la seconda parte, che sposta l’attenzione dall’io al noi, inteso come gestione della collettività. Quello a cui assistiamo è la parodia del controllo di chi dovrebbe proteggersi, attraverso l’alienazione dell’individuo, la sua spersonalizzazione. Il metodo Ludovico non è altro, infatti, che l’annullamento della persona tramite l’azzeramento degli istinti e della personalità in nome della realizzazione dell’omologazione a un comportamento che viene reputato consono. Questo tipo di processo comporta l’utilizzo di una violenza uguale se non addirittura maggiore, rispetto a quella utilizzata da chi ora la subisce, in quel meccanismo di come quella psicologica rimane sempre la costrizione più profonda e che lascia più cicatrici. Il risultato è la trasformazione della persona, il suo perdere colore per diventare la copia sbiadita di tante altre.
Questo ci porta alla terza e ultima parte, in cui Kubrick decide di non seguire l’andamento scelto da Burgess, percorrendo una strada nuova che secondo me, ha consacrato Arancia Meccanica come capolavoro. Il finale dello scrittore vedeva Alex, una volta svanito l’effetto Ludovico, reinserito nella società con la voglia di abbandonare la vecchia vita e ricominciarne una nuova, una specie di redenzione naturale. Di contro Kubrick invece, ci racconta il ritorno del protagonista alla sua dimensione iniziale, nella convinzione che la radice dell’anima ritorna sempre a soddisfare i propri istinti e la propria natura. E soprattutto trova il punto di equilibrio tra violenza privata e violenza dello Stato quali facce della stessa medaglia, un perverso meccanismo di opportunità tra controllo e libertà, tra incudine e martello, tra vittima e carnefice.
La realizzazione scenografica di Arancia Meccanica è qualcosa di molto vicino alla perfezione, una straordinaria simbiosi tra forma e contenuto, tra spazio e visuale, tra simbolismo e inquadrature. Un modo deciso e personale di mostrare il mondo di Alex, tra riprese dal basso e aperture aperte a tre/quarti, in uno splendido misto di stili. Il tutto condito da quella geniale riproduzione della lingua originale del libro, il Nadsat, un inglese con l’aggiunta di alcune desinenze russe e di parole inventate di sana pianta. A livello italiano, la traduzione fu complessa e accurata, per evitare di sminuire l’impatto che i dialoghi dovevano dare. Fu seguita personalmente dallo stesso Kubrick insieme a Maldesi, uno dei direttori del doppiaggio più famosi dell’epoca, e durò per settimane, con il risultato che tutti conosciamo.
Arancia Meccanica, almeno a livello italiano, è stato uno dei film più censurati della storia. Basti pensare che la prima riproposizione della pellicola su piccolo schermo fu fatta in seconda serata, dopo ben 35 anni dall’uscita nelle sale cinematografiche. Un’autentica vita in cui, senza una logica, se non di bieco pregiudizio, è stato privato il pubblico di tanta bellezza.
Kubrick ha voluto raccontarci la sua visione della deriva totalitaria marcando con il suo modo grottesco quanto incisivo, la perdita verticale dei valori, che dal giovane, base della società, arriva sino allo Stato. Quest’ultimo autore di un’educazione/ correzione dal sapore coercitivo in barba a qualsiasi legge, ha come scopo raggiungere la prevaricazione ideologica, il controllo sociale e di comportamento. Ottenere un mucchio di figurine facilmente scambiabili, magari senza nome e identificabili con un semplice e freddo numero. Il finale, peraltro diverso dall’originale, mette sul piatto la violenza dell’istinto alla violenza della razionalità, raccontandocela come due amanti che necessitano della loro unione per ritrovare la propria dimensione: di soddisfazione, stavolta legalizzata, dell’istinto di base per il primo, di ritrovato freddo potere di gestione, per il secondo.
La danza tra Hitler e Beethoven (Ludovico Van) è la splendida simbiosi di questo concetto, una discrasia in termini, due oscuri che si fondono, in un modo magnifico, dispotico e soprattutto senza tempo. Arancia Meccanica, infatti, è un film che esce da qualsiasi schema di datazione, in quella casella si potrebbe mettere tranquillamente uno spazio bianco e farlo riempire di volta in volta, allo spettatore di turno. E qualsiasi essa fosse andrebbe bene, in quell’attimo in cui la cinepresa e la mano che la possiede, diventano attori e spettatori di qualcosa di eterno.
Jonhdoe1978


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