Negli Stati Uniti, gli anni settanta hanno rappresentato un periodo di grande attività per i serial killer. I controlli per le strade erano praticamente inesistenti e i giovani (le ragazze soprattutto) invasi da quell’idea di libertà e scoperta tipica della cultura hippie, vagavano nel territorio soli, senza legami e senza che spesso nessuno sapesse neanche dove fossero. Ma se questo è assodato e purtroppo una generazione ne ha fatto le spese, solo uno di loro, i serial killer per intenderci, ha avuto l’ardore di presentarci in televisione come concorrente per uno show tv. Sembra folle e invece è realmente accaduto.
E proprio da questa storia, Anna Kendrick, con l’aiuto dello sceneggiatore Ian MacAllister McDonald, presentato in anteprima al Toronto International Film Festival, ha tirato fuori il suo primo lavoro nel duplice ruolo di attrice e regista.
Devo dire che il risultato complessivamente è stato buono, almeno fino agli ultimi 3 minuti. In quel momento, a mio avviso, si è semplificato troppo e si è perso un po’ del peso emotivo costruito durante tutto il film. Il modo in cui si è chiusa la storia, senza entrare nei dettagli per non fare spoiler, mi è sembrato una semplificazione ingiustificata rispetto allo stile di narrazione, appunto, molto interessante usato fino a quel punto. Inoltre, per chi come me non conosceva affatto questa storia, tale impostazione ha smorzato l’impatto finale. Alla fine ci si rende conto che non si era capito bene (e questo dipende dalla scrittura, non dallo spettatore) della reale portata delle gesta di Rodney Alcala (interpretato, c’è da dirlo, molto bene da Daniel Zovatto) e questa cosa non può non avere un impatto sul giudizio complessivo.
Pur apprezzando molte delle scelte registiche della Kendrick, penso che alla fine, per colpa appunto, della gestione finale, Woman of the Hour ti da l’idea di un progetto monco e dall’enfasi finale praticamente assente. Ho avuto la netta sensazione che non si sapesse come concludere e che alla fine ci sia lasciati ammaliare dalla scelta più facile/sicura, che, però, si è dimostrata anche la più emotivamente distaccata.
Voto 5.5/10
Jonhdoe1978
Woman of the Hour è l’ennesimo film su Netflix che te à venì più ansia de quando aspetti er tecnico de la lavatrice. Na storia vera (e già te fa capì che i matti in giro nun so mai mancati) e parla de Rodney Alcala, uno de quelli co la doppia vita perché la sera diventava un serial killer e la mattina faceva er concorrente di un quiz tipo “Il Gioco delle Coppie” americano…a sto punto potevano mette a condurre pure Jeffrey Dahmer e avevamo risolto!
Così sto film gira tutto attorno a sto matto, uno cor carisma de un venditore d’aspirapolveri, ma che sotto sotto è pericoloso peggio de na padella piena d’olio sur foco. Dato che nun c’era ancora Tinder, partecipa a sti quiz pure pe rimorchià, perché va bene ammazzà a gente però pure a lui je piace da fa er piacione. E allora ecco che te becca Cheryl, na ragazza sveja, simpatica, automunita, che però se ritrova in mezzo a sto marasma.
Poi mettemoce pure che quella che la interpreta è pure la regista (Anna Kendrick) al suo primo film, e che siccome stamo sempre su Netflix allora dovemo da tirà fori un messaggio, uno de quelli che vole l’algoritmo. Perché dimoselo chiaro, potevano pure parlà solo de sto scemo e alla fine poteva sembrà (alla larga, Jonhdoe perdonami) no spinoff de Dexter, e invece no perché sto film te parla de sessismo, de come sti quiz trattavano le donne come oggetti (pure gli uomini, che però erano più contenti) e de come a gente se gira dall’altra parte quando c’è n’problema. È na roba che te fa riflette, e ce mancherebbe, ma nun è cambiato un cazzo perché i serial killer che vanno in tv ce l’avemo pure oggi…solo che de gente n’ammazzano ancora de più. Na pellicola fatta bene, talmente bene che per via del finale dici “ma pe piacere” e te la scordi dopo 3, 2, 1…
Voto 5/10
Mklane
—————————————————————-
Woman of the Hour segna l’esordio alla regia di Anna Kendrick, che si confronta con un episodio tanto reale quanto inquietante: la partecipazione di Rodney Alcala, serial killer noto come il “Dating Game Killer”, al popolare programma The Dating Game. L’apparente normalità del suo carisma conquistò Sheryl Bradshaw, ignara delle sue intenzioni sinistre. Kendrick utilizza questa storia per denunciare un sistema sociale che ha spesso permesso a uomini violenti di agire indisturbati.
Il film è ambientato in un’America anni ‘70 ricostruita con un’estetica vintage, tra tonalità seppiate e un’atmosfera densa di oppressione. La narrazione si sviluppa su binari paralleli: da un lato, Sheryl, un’aspirante attrice che cerca visibilità attraverso un contesto televisivo superficiale; dall’altro, Alcala, un uomo che maschera la sua brutalità dietro un’apparenza rassicurante. Questa dualità enfatizza il messaggio di fondo: il male spesso si nasconde dove meno lo si aspetta.
La Kendrick, che interpreta anche Sheryl, adotta un approccio registico misurato e anti-sensazionalista, rinunciando a enfatizzare la violenza in favore di una messa in scena contenuta. Tuttavia, questa scelta limita la tensione emotiva, suggerendo più che mostrando la minaccia rappresentata da Alcala. Il ritmo, volutamente compassato, è interrotto da momenti di tensione che, seppur efficaci, non sempre riescono a mantenere alta l’intensità narrativa.
Se le interpretazioni brillano, con Daniel Zovatto che dà vita a un Alcala affascinante e disturbante, il film fatica a sfruttare appieno queste performance. La sceneggiatura, ambiziosa nel voler affrontare molteplici tematiche (dal maschilismo agli omicidi irrisolti) risulta a tratti frammentaria, diluendo l’impatto del messaggio femminista che vuole veicolare.
Presentato al Toronto International Film Festival e disponibile su Netflix, Woman of the Hour è un’opera che, pur con i suoi limiti, offre spunti interessanti su temi ancora attuali, come la sottovalutazione delle denunce femminili. Un debutto promettente, ma che lascia intravedere quanto avrebbe potuto osare di più.
Voto 5.2/10
Alessandrocon2esse
Ti è piaciuta la recensione? Seguici anche su Instagram e Facebook
Lascia un commento