Facendo finta che Violet Evergarden: Eternity and the Auto Memory Doll non sia stato mai fatto, e non sarebbe stata una grandissima perdita, la domanda a cui rispondere immediatamente è: c’era bisogno, dopo la meravigliosa serie, di distribuire Violet Evergarden – il film? Semplice, assolutamente si.
Il successo di questo lungometraggio, a mio avviso, nasce già dalla scelta del suo regista, lo stesso dello serie. Taichi Ishidate, infatti, non solo era ormai padrone dei personaggi e della storia, ma aveva dentro di se la delicatezza di quel racconto e di tutto il sogno e la sofferenza che esso si portava dietro. Certo, non era facile proseguire un discorso che per quanto aperto era giunto a una sua conclusione e la scelta era abbastanza limitata. Io credo che alla fine la decisione sia stata presa attraverso la risoluzione di un semplice dubbio (me lo sono immaginato seduto su un divano con la testa in su): possono esistere le seconde possibilità? E se si, cosa sono? La risposta che si è dato, cosa che si evince da tutta l’impostazione di questo film, è che esse non sono un modo per rimettere apposto le cose, questo non accade mai, ma la maniera per rimodellare un qualcosa che riteniamo e ritenevamo indispensabile e che per colpa o per il fato non siamo riusciti a gestire nel migliore dei modi tempo prima.
Partendo da questa morbida e consistente considerazione, ha cucito tutta la storia facendo però, e con una maestria infinita, quello che un racconto postumo di un altro (cosa che il primo film non ha fatto, ma le scelte erano ben altre) deve sempre fare: un piccolo riassunto su quello che è stato, rinfrescando cosi la memoria a chi l’ha visto e dando gli elementi a chi, invece, ne è ignaro. E’ possibile, infatti, ed era un evidente obbiettivo e a differenza del film precedente, seguire e comprendere tutta la trama senza aver visto la serie, anche se, ed è giusto sottolinearlo, averlo fatto è tutta un’altra cosa.
E’ un’altra cosa perché l’ascensione emotiva completa la si ottiene solo se si viene dal quel percorso di comprensione e accettazione fatto nelle tredici puntate della serie, con l’amore che da straniero diventa la linea guida sulla quale basare ricordo, futuro e speranza. Si perché la bellezza di Violet Evergarden è stato il riuscire a trasmettere la crescita del sentimento all’interno della perdita, come se l’idea e quello che è stato siano un fuoco continuo su cui continuare a soffermarsi.
Certo, ovviamente ho pensato molto alla coerenza di far “tornare” il Maggiore, ma il modo con cui è stato inserito e soprattutto la scena finale fatta di piccoli e grandi gesti misurati e travolgenti, mi fanno senza ombra di dubbio dire di si. Solo l’idea di far pronunciare a Violet, in preda al crollo dopo anni di pensieri e autoanalisi sui sentimenti, l’altruismo e l’amore, “non trovo le parole” (lei di questo ha basato la sua vita) è di una bellezza e una delicatezza che da sola vale il motivo della scelta.
Ma è proprio la costruzione della storia a convincere, il passato che riaffiora dal futuro e i gesti che al di la di qualsiasi evoluzione tecnologica che rimangono nella mente della gente, tramandata per quello che erano e quello che hanno e in qualche ancora rappresentano. Il destino di Yuris, nella sua tragidicità, è il perfetto filo temporale di tutto questo, il personaggio che in qualche modo ha legato intenzione e possibilità, la vita che è stata e quella che potrebbe essere.
Ogni personaggio, soprattutto i principali, vengono illuminati da degli elementi in più che però hanno tutti una caratteristica comune: sono stati invasi dell’essenza di Violet. Ora, il motivo di questa scelta, a mio avviso, va oltre le caratteristiche del personaggio e vanno a confinarsi nell’idea e nel sogno. La giovane ragazza è il simbolo del buio e della luce, dell’amore eterno oltre qualsiasi limite, di quel concetto di speranza al di la veramente di tutto a cui in qualche modo ognuno di noi sogna di ritrovarsi. In questo contesto, e la serie l’aveva espresso benissimo, la presenza dell’altra parte della mela diventa “solo” il coronamento, non l’essenzialità. Quest’ultima risiede in quello che ci ha lasciato e in quello che ci continua a dare in ogni decisione che prendiamo. La lettera che Violet scrive al maggiore prima di andarsene proprio questo ci dice: puoi dire e fare quello che vuoi, puoi esserci o non esserci, parlarmi o non parlarmi, tu sei la mia guida, la persona che mi ha indirizzato e che mi indirizzerà, la cartina di tornasole per misurare tutte le sensazioni che ho provato e che proverò.
La funzione della corrispondenza, forse ancora di più che nelle serie, probabilmente mostrare il telefono ha aiutato, arriva in maniera travolgente e per quello che doveva e deve sempre essere: un modo per raggiungerci e per dire qualcosa che magari a parole non riusciamo. Anche perché, se ci pensiamo, una lettera è pensata, pesata, curata. Quello che c’è scritto diventa quindi lo specchio della profondità del nostro animo, i pensieri assoluti su qualcosa o qualcuno. Geniale sotto questo aspetto, l’invenzione di un alfabeto scritto non comprensibile. E’ come se si sia voluto, e cosi è stato, portare questa storia su un piano sensoriale differente estraniando il mezzo pur mantenendo l’estremizzazione e la normalità dell’indole umana.
Per mantenere quel senso circolare che ogni storia dovrebbe avere, chiudo la recensione di questa sorta di trilogia, esattamente come la ho iniziata. Ogni tanto ho la necessità di vedere un anime (o cartone animato, chiamiamolo come vogliamo) e questo perché, come detto, ha la capacità di raccontare in maniera a volte più libera qualsiasi tipo di argomento, senza per questo minare nella maniera più assoluta il coinvolgimento e l’intensità del messaggio. E se questo è vero, poi ovviamente entrano in ballo i gusti e le attitudini, tutte rispettabilissime, Violet Evergarden è l’esempio perfetto, almeno nella serie e in questo secondo film (Violet Evergarden: Eternity and the Auto Memory Doll è molto lontano da loro), di quanto questa considerazione sia vera e di come questo genere possa trascinarti nei meandri più intimi della coscienza e dei pensieri. E quando questo avviene, come ci hanno più volte ripetuto durante il viaggio, “saremmo disposti ad andare ovunque se solo me lo chiedessi”.
Jonhdoe1978
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