Il post Oscar, per quante titubanze si possono avere sull’agire dell’Academy, è da sempre cinematograficamente invasivo. E’ indubbio, infatti, che all’indomani dell’annuncio dei vincitori parte la rincorsa verso i titoli che per qualche ragione ancora non si sono visti. Quest’anno, 2023, a differenza dei precedenti, essendo già salito sui velieri Everything Everywhere all at Once e The Fabelmans la prima scelta non poteva che ricadere sul The Whale di Darren Aronofsky, almeno per la curiosità sulla prova di Brendan Fraser (Oscar Attore Protagonista).
All’uscita dalla sala, rimanendo in tema di cose gigantesche, i miei giudizi potevano e possono essere racchiusi sulla combinazione di sole due sillabe: sul film un enorme NO, sulla performance del fu Rick O’Connell un mastodontico NI.
Partiamo dal primo.
La prima considerazione riguarda l’inutilità di aver utilizzato il 4:4. Alla fine degli anni novanta tale formato voleva in qualche modo restringere il campo visivo donando allo spettatore una profondità che il 16:9 (l’HD era ancora una chimera) non poteva e riuscire a dare. Il problema è che The Whale è già in alta definizione e considerando che è anche ambientato ai giorni nostri, la scelta è completamente inutile.
Come si sa, il film è la trasposizione cinematografica dell’opera teatrale di Samuel D. Hunter. Pur con difficoltà, non è impossibile adattare due concetti scenici cosi diversi a patto però che non ci si fermi, come in questo caso, al compitino ma che si cerchi una qualche escamotage visiva particolare o almeno ricercata. Qui non avviene.
In ultimo, senza entrare nei casi specifici, per tutto il film i quattro personaggi (menzione a Hong Chau), a partire dal protagonista, risultano persi dietro le loro difficoltà, con un passato e un futuro fatto soprattutto di rimpianti e di se. La cosa che stona, oltre alla mancanza di un coinvolgimento completo, non è tanto questa agonia morale, nella conduzione della storia ci sta, quanto sul fatto che tale condizione sparisce improvvisamente seguendo il messaggio quasi mistico/religioso (il riferimento non è casuale) che l’espiazione/redenzione sia comunque sempre possibile, anche nei casi al limite.
Chiusura obbligata per Brander Fraser. Per tre/quarti di film la sua è un’interpretazione di gestione, si limita a condurre con astuzia quello che aveva fatto il trucco (Oscar anche in questo). Solo negli ultimi 20 minuti tira fuori l’anima del personaggio (e di tutto il film) che però, a mio avviso, non giustifica pienamente, e da qui il NI, il suo premio a discapito dell’Elvis di Austin Butler.
Voto 5.9/10
Jonhdoe1978
TRAILER: c’è troppo Charlie dentro la stanza.
TRAMA: c’è una balena dentro una stanza e potremmo chiuderla qui. Mi viene da pensare a Magritte che nelle stanze ha sempre preferito lasciarci le mele, come quella di “Camera d’ascolto” dove ce n’è una gigantesca ficcata dentro, una di quelle dove non c’è spazio per altro, così verde che sembra pronta a esplodere per invadere le vite di chi la osserva.
Ma a differenza della mela, qui una balena di nome Charlie lascia dei spiragli affinché alcune persone possano osservarla più da vicino, fino a entrare tra quelle quattro mura nelle quali è rinchiusa, all’interno di vuoti colmati dal cinismo della figlia, dalla compassione del ex moglie, dai dubbi di un ragazzo in cerca di se stesso e dall’amore della sua amica Liz, un’infermiera nonché sorella dell’ormai defunto compagno di Charlie.
A questo punto la casa sembra già piena ma c’è ancora spazio per una persona: il tuo sguardo, severo o giusto che sia, forse pieno di lacrime accompagnate da pensieri contrastanti, poiché la vita di Charlie non è di così facile comprensione, potrebbe toccare alcune corde nascoste nell’anima o lasciarci impassibili mentre la osserviamo.
A interpretare Charlie è l’attore Brendan Fraser, con una performance che gli ha permesso di vincere un premio Oscar che sembra quasi un voler chiedere scusa per tutto quello che ha passato e subìto dall’industria. In questo caso dovrei dire che c’è una balena dentro uno spazio strettissimo chiamato Hollywood e potremmo chiuderla qui.
Voto 5.9/10
Mklane
L’autoflagellazione del corpo, osservato come fosse una tela dove un pesante pennello lascia cicatrici e strascichi di carenze, assuefazioni e malsane abitudini, è un discorso che Darren Aronofsky si porta dietro fin dai tempi di Requiem for a Dream.
L’inesorabilità del destino che abbatte la sua scure sull’esistenza dei protagonisti delle sue pellicole, di cui ci vengono raccontate l’ascesa, il declino e la caduta (e mai la rinascita), è una costante immancabile per lo sceneggiatore, regista e ormai produttore newyorkese.
Con The Wrestler, il suo capolavoro, oltre a restituire ai vertici della recitazione un Mickey Rourke finito troppo presto nel dimenticatoio, ci aveva mostrato l’Odissea di sofferenza del wrestler Randy “The Ram” Robinson, mentre cercava di ricostruire il trascurato rapporto con sua figlia, mentre lentamente si lasciava massacrare sul ring tra pugni, calci ed antidolorifici, arrivando soltanto a sfiorare l’Oscar con Rourke.
Con The Whale, Aronofsky, sembra voler ripercorrere sistematicamente gli stessi medesimi passi, nel tentativo di raggiungere proprio quell’obiettivo appena accarezzato quattordici anni prima, lavorando nuovamente sulla fisicità di un bravissimo attore caduto nell’oblio, stavolta è il turno di Brendan Fraser che interpreta Charlie, un professore condannato per anni all’ostracismo a causa del senso di colpa per il suicidio del suo compagno Alan e, nuovamente, sul dramma padre/figlia che provano a ritrovarsi prima che sia troppo tardi.
A parte il diverso, ma complementare, tipo di lavoro sul corpo degli attori e la sceneggiatura che, mentre per il primo era originale, per il secondo è un adattamento cinematografico dell’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter, le due pellicole di Aronofsky hanno due sole sostanziali differenze: a Fraser è riuscito quello che non riuscì a Rourke, ossia portarsi a casa la statuetta come Miglior Attore Protagonista e, ultima ma di grandissima importanza, The Wrestler ti scaldava il cuore…The Whale, tolta la prova di Fraser, può al massimo farti scaldare il divano.
Darren, adesso che l’Oscar è stato portato a casa, che ne dici di cambiare registro? O quantomeno, se proprio non riesci ad evitarlo, riportaci in auge Macaulay Culkin o Jack Nicholson.
Alessandrocon2esse
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