“Senza i fallimenti non saremmo in grado di riconoscere un’occasione diversa”. Non è una frase di un qualche filosofo o poeta pre e post moderno, ma semplicemente un’asserzione che una persona (che poi non avrei mai più rivisto) disse durante una cena. Il contesto non lo ricordo perfettamente, ma si riferiva al fatto che gli errori in qualche modo ci permettono di vedere le cose da un’altra prospettiva. Perché l’ho tirata fuori? Semplice, mi è tornata in mente alla fine di Lonesome Jim, terzo lungometraggio di Steve Buscemi. Ovviamente non è l’unico film a cui tale affermazione può essere adattata, in realtà lo schema pessimismo/infelicità/incontro/amore è uno dei più utilizzati nel panorama cinematografico mondiale, ma semplicemente perchè è l’unico elemento che mi è venuto in mento per il quale trovare un appiglio per salvare questo progetto.
Il pur bravo Steve Buscemi, le cui qualità anche dietro la macchina da presa nei due primi progetti erano state evidenti, è autore, infatti, di una storia per lunghi tratti piatta e che non riesce quasi mai a oltrepassare il limite impersonale dei personaggi, protagonista in primis. La sensazione perenne che si avverte, infatti, nonostante la scelta in sottrazione di quasi tutte le personalità (su questo tema dobbiamo necessariamente tornarci), è che manchi continuamente qualcosa per fare in modo che la storia arrivi per quelle che evidentemente erano le intenzioni. La frustrazione, il dilemma sulle cose, l’apatia, il riuscire a non dire con decisione le proprie paure e la necessità di chiudersi come autodifesa, le si percepiscono più perché la voce fuori campo indirizza il nostro conscio su quelle questioni più che farcele vivere. In pratica, l’esperienza personale esalta i concetti e questo se ci si pensa è un controsenso.
Soprattutto attraverso i personaggi di Anika (Liv Tyler) e Sally (Mary Kay Place), Lonesome Jim cerca anche di ampliare le sfaccettature emotive, mostrando come le possibilità di affrontare il mondo possono e sono varie. Proprio questa dicotomia dovrebbe alla fine essere il cuore del film, mostrare come le differenze in alcuni casi siano conciliabili (emblematica la frase di Anika “non avrebbe mai funzionato”) e i sentimenti veri l’unica cosa che può smorzare e ammorbidire indole e preconcetti. Peccato che questo connubio, o meglio, questo tentativo di connubio funzioni poco o nulla se non nei secondi finali. Questi ultimi infatti, oltre a farmi venire in mente la frase evidenziata nella prima riga, mi ha fatto pensare che il film avesse detto di più in 30 secondi che nei restanti 90 minuti. Il concetto era chiaro e diciamolo, scontato, ma i gesti tanto semplici e naturali che gli hanno dato un senso tenero, possibilista e soprattutto, speranzoso. La domanda allora è: perché non utilizzare lo stesso approccio in tutto il film? Perché non rendere quel concetto dei fallimenti e dell’approccio alle nuove occasioni, ovviamente con le concessioni e i passi narrativi corretti, più morbido e delicatamente reale sin da subito?
Di certo, e qui arriviamo all’argomento pocanzi lasciato in sospeso, non era assolutamente Casey Affleck l’attore che avrebbe potuto far fare a film e personaggio il salto empatico necessario. All’ennesima dimostrazione è abbastanza chiaro che gli unici ruoli in cui può essere impiegato sono quelli, appunto in sottrazione, nei quali espressività, verve e condivisione emozionale non sono richiesti. A me personalmente non ha mai trasmesso più di tanto, tranne in certi rari casi, ma non si può nascondere che in queste maschere qualcosa la da, poi entriamo nella sfera della percezione personale e quindi tutto diventa soggettivo.
Altrettanto inquadrabile Liv Tyler che anche in questo caso fa la… Liv Tyler: tenera, empatica e che ti da sicurezza. Non è e non sarà mai una grande attrice, ma la morbidezza dell’amore e della sincerità te la trasmette sempre e in storie come queste è quasi fondamentale.
Amo i film intimi e intimisti. Se hanno enfasi e costrutto mi trascinano in un campo onirico assolutamente possibilista nel quale l’esistenza del protagonista si mischia alla mia. Di certo, il dramma e il pessimismo sono le chiavi più facili per storie di questo tipo, ma anche le può rischiose. Se fallisci l’obiettivo infatti, lo stridere è più fastidioso e anche meno scusabile. Lonesome Jim (titolo peraltro foneticamente ottimo ma concettualmente non a fuoco) di certo non l’ha centrato, ma non ha fatto, grazie alla fine, così acqua come ad un certo punto credevo e pensavo. Il problema è che per questo tipo di film lo scorrimento normale e senza sussulti non basta e questo perché proprio nell’oblio della persona e nella sua risalita o caduta definitiva ciela proprio il suo perché e il suo messaggio. Il guizzo finale serve solo a tirar via con un pizzico più di dolcezza il dvd (o a cambiare programma o piattaforma ai titoli di coda), non a smussare il senso apatico di cui si diceva all’inizio e di cui tutto il film è abbastanza pesantemente intriso.
Jonhdoe1978
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