Non molto spesso, ma mi capita a volte di soffermi a pensare da dove nascono le emozioni. E stavolta non mi riferisco alla parte astratta della questione, ma proprio a quella fisica. Tanto per andare al sodo, la domanda è: qual è la combinazione corporea che ci fa provare gioia, tristezza, rabbia, indifferenza, paura, ansia e soprattutto, dove o cosa o quale è il punto emotivo che ci porta alla razionalità e all’irrazionalità? Per quanto ho letto e riletto mi rimane tuttora difficile accettare le spiegazioni scientifiche, meglio, dal mio punto di vista, rimanere in quel limbo tra domanda e ignoranza.
Tutte queste domande, andando allo specifico di questo pezzo, mi sono riaffiorate durante la visione di L’altra parte dell’amore (per una volta il titolo tradotto è migliore di quello originale, Lost and Delirious è veramente brutto e fuorviante), film di punta della regista Léa Pool e che è riuscito ad analizzare con la stessa cura l’insicurezza dell’io adolescenziale e il generale dramma esistenziale.
Il film parte da un elemento indiscutibile: l’adolescenza è il momento in cui si forma definitivamente la sessualità e dove le emozioni sono ancora poco controllabili e molto istintive. Questo comporta un’irruenza comportamentale più intensa rispetto a resto della vita e un discernimento delle scelte e soprattutto, delle soluzioni molto più limitato e pessimistico. L’altra metà dell’amore mostra meravigliosamente tutti questi passaggi, condendoli, però, come detto, di una buona dose universale di empatia e sofferenza. In pratica, il disagio, i sogni e le paure di Paulie, in alcuni tratti, arrivano in modo più ampio del contesto specifico rientrando in quella categoria immensa della frustrazione e disattabilità sociale dell’uomo in genere. Il motivo di questa estensione, dal mio punto di vista, è avvenuto sia perchè l’assenza dei punti di riferimenti vale indiscriminatamente per ogni età che dal fatto che certi rapporti trascendono ogni logica temporale e/o fisica per issarsi in un campo quasi astratto. Il momento che questa considerazione mi si è materializzata è quando la stessa Paulie parlando con Mouse dice: “Lesbica? Io non sono lesbica, io amo Tori..non ti sbagliare”. Ecco, è proprio in quell’attimo che sale tutto il senso profondo della metafisicità dell’anima di cui cerchiamo continuamente risposta senza quasi mai trovarla e di conseguenza della sua incontrollabile irrazionalità. Certo, la sensazione istintiva è che l’emozione è esaltata dalla giovane età e la perdita di se stessa della protagonista figlia proprio dell’incapacità, per mancanza di esperienza, a gestire l’abbandona e l’ingiustizia. Ma personalmente, credo che il messaggio vada più lontano e riguardi l’indole del proprio essere e il bisogno, l’età qui non conta, di avere qualcuno che nei momenti difficili ci stia vicino, magari solo per darci un’alternativa mentale.
L’amore della vita, l’altra parte della mela, ho sempre pensato che andasse oltre età, conoscenza ed esperienza. Questo, evidentemente, mi ha portare a vivere questa storia senza nessun limite o pregiudizio mentale portandolo tranquillamente al mio oggi, per quanto lontano dalle protagoniste. Chi ci dice ad esempio, che veramente Tori sarebbe stato l’amore della vita di Paulie? La consuetudine sociale? Direi troppo poco per qualcosa che appartiene all’inconscio e all’ignoto.
Non mi nascondo dietro a un dito e so benissimo che questo film ha voluto mettere sul tavolo anche le problematiche relative all’intolleranze, alle differenze e al limite emotivo che si può sopportare, che poi riguarda il concetto esposto nelle prime righe. Devo essere onesto, certamente il pregiudizio è uno dei cardini di questa storia, ma la percezione di esso, forse perché lo si inquadra più su un rapporto d’amore infinito che semplicemente tra due ragazze, è più complesso e meno rabbioso. Il centro in pratica, rimane sempre l’essere o non essere delle protagoniste (anche se poi i problemi sono legati al giudizio sociale del loro rapporto) e il contesto mi si è emotivamente appannato.
Diverso, invece, l’argomento di sentirsi perduta cosi tanto da pensare e credere che l’unica soluzione sia cessare la propria esistenza.
Qui entrano in ballo dei momenti cosi intimi e soggettivi che, a mio avviso, non si può dare o fare un’analisi didascalica e razionale. Di certo, molto dipende da quell’equilibrio perso di cui si diceva all’inizio e che, dal mio punto di vista, rimane un completo mistero. Detto questo, quindi, quello che diventa fondamentale è la rappresentazione visiva di questo disagio e qui Léa Pool azzecca tutto: tempi, modi e realizzazione.
Un elogio merita la prova di Piper Perabo, intensa, piena e giustamente sfuggente. La sua interpretazione ha evidentemente oscurato tutte le altre a cominciare da quella di Misha Barton, ancora acerba e lontana da quella che poi, con i suoi limiti, sarà.
L’altra metà dell’amore è un film maledettamente intenso e che lascia spazio più ai sentimenti che alla tecnica. L’amore, l’amicizia, la scoperta, la tristezza, l’apatia, la delusione, la menzogna, la rabbia e in certi tratti, la speranza, arrivano a prescindere dal mezzo che cosi diventa solo una lente di trasmissione. E’ di certo anche una storia profondamente coraggiosa ma dalla quale è emerso tutto quello che si voleva risultando alla fine bilanciata e assolutamente delicata nell’ambito di temi cosi forti. E questo non può che essere merito di chi il progetto l’ha diretto e pensato. Merito, e chiudo, che si estende anche al modo, fine compresa, che hanno permesso che le sensazione diventassero armoniche e non imposte. In pratica, ci si mette tanto della propria sensibilità mentre si guarda il film e questo dal mio punto di vista è sempre un enorme virtù.
Jonhdoe1978
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