Normalmente, quando si inizia o meglio, si ha l’esigenza di cominciare a scrivere qualcosa che sia una poesia, un racconto, un film o una canzone, la prima cosa che si fa è guardare a se stessi, al proprio vissuto, alle proprie sensazioni. Questo processo è estremamente faticoso e per fare in modo che arrivi con lo stesso identico impatto con cui è stato pensato è necessaria molta attenzione, molta cura, molto talento e soprattutto molta sensibilità.
Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) è un ragazzo di dodici anni che vive nella Parigi degli anni cinquanta insieme alla madre (Claire Maurier) e al padre non biologico (Albert Rémy). Il rapporto tra loro non è idilliaco come l’approccio che ha nei confronti della scuola.
François Truffaut quando ideò, scrisse e diresse I 400 Colpi, suo primo lungometraggio, aveva solo 26 anni. Quello che stupisce non è tanto la profondità di spirito che, a mio avviso, non ha età, ma la padronanza della scrittura e soprattutto delle regia che evidenziano un talento innato che nulla a che fare con l’esperienza.
La sua è una storia malinconica vista e raccontata con gli occhi di un ragazzo nel pieno dell’adolescenza, intesa come quella delicata fase che porta il bambino a diventare adulto. In essa si manifestano tutti i conflitti del caso, le domande, le necessità fisiche e morali, l’indispensabilità di avere dei punti di riferimento, delle linee guida, dei principi su cui fondare scelte e decisioni. E a Antoine, mancano propri questi, persi e crollati davanti a una famiglia lontana che lo vedono più come un peso da portare che un amore da crescere. Soprattutto nella madre, pentita sin da subito di averlo tenuto, che non perde occasione per dargli addosso, fermandosi e addolcendosi solo nell’istante in cui è interessata al suo silenzio di fronte a un tradimento.
L’adolescenza è un momento di scoperta, di ribellione naturale contro qualsiasi autorità e ne I 400 Colpi questa viene ancora di più evidenziata. La distanza tra bambini e adulti è siderale, come se fossero due mondi diversi che non riescono mai a incontrarsi. Nei secondi è accentuato quel sentimento di intolleranza e severità, l’impossibilità a capire, perdonare e immedesimarsi, come se si fossero dimenticati come fosse quell’età.
Ed è emblematico che Truffaut li spersonalizzi, non dandogli nemmeno un nome proprio ma solo un ruolo nella società, quasi come semplici esecutori di mansioni senza anima. Gli unici nomi che compaiono sono quelli dello stesso Antoine e dell’amico del cuore Renè Bigey. Questo è l’altro grande tema del film, l’amicizia, vera, viscerale, spontanea. Nel momento del bisogno Renè si prende cura del suo amico come e più di chiunque altro, dividendo con lui qualsiasi cosa, compresi dubbi, speranze e sogni.
Toccante, spiazzante, struggente il momento in cui Antoine lo vede arrivare nell’ora di visita del carcere minorile dove è rinchiuso. Il suo viso si illumina di una luce improvvisa, spenta solo nell’attimo in cui capisce che non faranno entrare il Renè. Luce peraltro assente nel rivedere una madre che di tale ha ormai, solo il nome, essendo più vicina a una conoscente di cui non si riconoscono né lineamenti né voce.
Truffaut in questo film ci ha messo se stesso, la sua storia, i primi anni della sua vita, trasformando il piccolo della famiglia Doinel nel suo alter ego, quale voce dei suoi pensieri e delle sue sofferenze.
Tutte le bugie, i gesti, le fughe del nostro protagonista sono le stesse dette e affrontate dal regista da piccolo, quali simbolo allo stesso tempo sia di un grido di attenzione che di necessità (inconscia dell’età) di un po’ di libertà. Il tutto condito da un’anima di fondo, una delicatezza naturale nel raccontare piccoli e grandi disagi, adolescenziali ed esistenziali, in un contesto di assoluta mancanza d’amore.
Nel monologo finale che Antoine fa davanti alla psicologa di turno c’è tutto il disagio, l’insicurezza, l’essersi sentito senza voce, senza importanza, alla ricerca continua di qualcuno che possa indirizzarlo verso il riconoscimento del suo io e della sua natura. Ed è per questo, come d’altronde faceva il suo autore, che si rinchiudeva ore al cinema a vedere vecchi film, per cercare delle risposte laddove nessuno riusciva a dargliele o meglio nessuno riusciva a spiegargliele. Tutto questo è presente nella sua corsa finale, verso una meta indefinita, nascosta, scoscesa, con il terreno tremante da una prospettiva incerta e senza nitidezza. Arriverà con calma, Truffaut si è preso tutto il tempo del mondo in questa scena, passo dopo passo, respiro dopo respiro, sulla riva del mare, che non aveva mai visto, assaporandone odore e immensità. E’ la presa di coscienza immediata quanto inconsapevole di avere paura, di non vedere nessuna zattera a cui aggrapparsi e di non avere nessuna certezza del futuro. Un finale splendido quanto aperto nel quale personalmente ho visto l’inizio della crescita definitiva, il cominciare a stringere al di la di tutto, una speranza dietro la malinconia, una pietra che abbia la particolarità di non sprofondare neanche nella sabbia bagnata, per cominciare a costruirci intorno la base per una nuova vita.
Jonhdoe1978
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