Se a una persona facente parte del mondo occidentale chiedete di chiudere gli occhi e immaginare la morte, senza possibilità di errore, ve la descriverà come un gigantesco scheletro bianco coperto da un mantello nero con in mano una falce. Nell’universo orientale tale sistematica assimilazione della grande mietitrice non è cosi immediata. Tale cultura, infatti, oltre a non dare una fisionomia univoca a tale figura, fra credenze e ossessioni, all’interno di un complesso gioco di ruoli, ritiene che tra la vita e la morte esistano numerose entità metafisiche intermedie, una sorta di accompagnatori o giudici intermedi, con funzioni, ruoli, aspetto, e compiti completamente diversi. Questa diversificazione si spiega con il rifiuto, da parte di chi segue questi ideali, del paradiso per come lo intendiamo noi, sostituito o dal nulla assoluto o da un cammino spirituale di ritorno.
Light Yagami è un brillante e introverso studente annoiato da uno stile di vita che ritiene monotono e con poche sollecitazioni. Una mattina, all’uscita di scuola, trova per terra uno strano libro, il Death Note, che ha inciso al suo interno la frase: “L’umano il cui nome sarà scritto su questo quaderno morirà”. Nonostante l’ovvio scetticismo iniziale decide di portarlo con se. Poco dopo, durante il telegiornale, alla notizia che un criminale aveva appena sequestrato dei bambini, tra il gioco e la curiosità, decide di provarlo. Con sua immensa sorpresa, il malvidente muore veramente…
Sono un grande appassionato di fumetti, ma non di manga. Il motivo non è tanto nei contenuti, oggettivamente validissimi, quanto nella struttura grafica con il quale sono fatti, che non riesco mentalmente ad armonizzare. Al contrario ho sempre amato gli anime. Ritengo che hanno rivoluzionato, e ancora lo fanno, l’intrattenimento animato mondiale portandolo a un livello di eccellenza assoluta e soprattutto, sdoganandolo da quella triste e arcaica etichetta di semplice prodotto per bambini. Vien da sé che negli anni ne ho visto e ne vedo tantissimi rimanendo quasi sempre se non proprio esaltato almeno soddisfatto e appagato. Detto questo, il titolo in questione, Death Note, mi era completamente sfuggito, e se non fosse stato per un suggerimento di un mio amico probabilmente ne se sarei rimasto per sempre all’oscuro, perdendo, a conti fatti, veramente moltissimo.
Riproposizione anime dall’omonimo manga ideato e scritto da Tsugumi Ōba, Death Note è, infatti, un geniale, ispirato, e per continuità, sorprendente racconto che unisce il thriller e il noir alla psicologia sociale e morale. Quello che colpisce di più, o meglio che ha colpito me di più, sul resto poi tornerò, è la capacità di questa serie di metterti di fronte alla tua parte più scura e sporca. Questa condizione, avrei potuto dire sensazione ma sarebbe stato poco veritiero, comincia con l’immediata e brutale domanda se saremmo mai in grado di usare il Death Note, e se si contro chi, per poi svilupparsi e ingigantirsi in nuovi e altrettanto spinosi interrogativi man mano che la storia va avanti. Il motivo di tale ondata introspettiva va ricercato nel fatto che ogni personaggio, con livello di gravità o intensità diverso, con esclusione in parte del padre di Ligth, ha un suo lato nero da mostrare e che molto spesso prende il sopravvento sul “normale” giudizio. Gli stessi L e N, simboli in qualche modo della ricerca di giustizia, pur di raggiungere i loro scopi non lesino gesti moralmente discutibili e alcune volte quasi sadici. Anche l’amore, mostrato attraverso Misa e Kiyomi Takada, oscilla tra il puro, l’ossessione e lo strumentale, almeno da un certo punto di vista, con estrema facilità, mostrando cosi più facce di uno stesso sentimento, che poi è come avviene nella realtà.
Proprio questo scendere nel torbido (inteso in senso molto lato) di tutti i protagonisti, a mio avviso, ha reso appunto questo titolo ancora più intrigante e soprattutto veritiero. I nostri pensieri e le azioni che pensiamo di poter fare in determinate condizioni sono molto più deprecabili, almeno in considerazione dei dogmi sociali con i quali viviamo, di quanto si possa pensare e rappresentarle nella sua crudezza, ovviamente nella loro estremizzazione, non ha fatto altro che aumentare coinvolgimento e immedesimazione verso la serie.
Senza scendere in troppi particolari, chi non userebbe il Death Note per esempio per fermare Putin? Se ci si pensa è più o meno lo stesso principio, seppur basico, di Kira, alias Light Yagami: rendere il mondo migliore eliminando tutti i criminali. E’ ovvio che questo incipit morale da parte del giovane studente con il tempo si è sviluppato sino all’assolutismo, trasformandosi in un’esaltazione ingiustificata del proprio io. Ma seppur questa condizione sia in qualche modo inaccettabile, il modo con cui egli calpesta persone su persone senza nessun rimorso è incredibile, la costruzione del personaggio Ligth è cosi intrigante e meravigliosamente complicata, e qui è tutto merito di chi l’ha pensato, che è impossibile non aver in molti momenti un ascendente verso di lui. La lotta psicologica e di gesti tra lui e L è una delle situazioni più belle non solo del mondo anime ma, a mio avviso, proprio di genere. Una partita a scacchi mentale e metaforica sublime, con una componente romantica e morale geniale e per certi versi senza precedenti. Due luci e due oscurità coincidenti e contrastanti che proprio dalla loro rivalità trovano una soddisfazione maggiore per raggiungere il proprio obiettivo.
All’inizio parlavo di continuità, e questo forse è il più grande merito di questa serie. Mantenere più o meno lo stesso livello di intensità e originalità dopo le prime puntate, oggettivamente da 10 per idea, costruzione e sviluppo, era tutt’altro che facile. Ogni puntata non da mai l’ìdea di essere una specie di ponte tra una situazione e l’altra, ma anzi determina sempre qualcosa di nuovo e quasi sempre sorprendentemente. La sensazione che ho spesso avuto, qualche momento neutro c’è comunque stato, è di una escalation continua, una scalata senza freni verso un qualcosa di sempre più complicato ma allo stesso tempo coerente e ammaliante.
La conclusione è l’esatta somma di quanto visto, con una delicatezza, peraltro sempre presente in tutta la serie, assordante che unisce la motivazione futile, le ultime parole di Ryuk riguardo la rispettiva noia sono la perfetta fotografia, all’unione profonda sia tra avversari che tra persone vicine. In quell’istante, e mi riferisco agli ultimi secondi, si crea un solco profondo, nonostante fosse quello l’argomento nello svolgimento la sensazione è più precaria che sostanziale, tra la vita e la morte. Si sente una sensazione di nulla, pace e mancanza fortissima, quasi che la vita rimanga l’unica ricerca e consolazione che abbiamo e che dopo non ci sia nulla. D’altronde Death Note, e faccio seguito a quanto detto in premessa, segue le convinzioni religiose e ultraterrena del paese nel quale è stato scritto, convinte ci sia un piano esistenziale umano e un altro dedicato ad altre entità, nel caso specifico il mondo dei dei della morte. In merito a questi ultimi, da sottolineare, in estrema conclusione, l’enorme differenza tra Ryuk e Rem, simbolo metaforico non troppo velato per dire come esistono sempre delle differenze di attitudine e comportamento all’interno di esseri della stessa specie, al netto dei motivi e delle priorità. E Death Note alla fine ci dice meravigliosamente, al di là del piano esistenziale, che proprio quest’ultime sono il termometro di tutte decisioni che si prendono, futili o importanti, personali o collettive, sentimentali o egoistiche, mirate o improvvisate che siano.
Jonhdoe1978
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