Nel 1999 il regista statunitense Brad Bird decise di prendere le redini del suggestivo film d’animazione Il Gigante di Ferro come omaggio alla memoria di sua sorella Susan, tragicamente assassinata dal marito con un colpo di arma da fuoco.
Questo doloroso evento scosse profondamente Bird, spingendolo a trovare conforto nel romanzo The Iron Man scritto da Ted Hughes nel 1968. Bird riteneva che la storia fosse ideale per essere trasposta sul grande schermo poiché ruotava attorno alla provocatoria domanda: “Cosa accadrebbe se un’arma sviluppasse un’anima e decidesse di non voler più essere un’arma?”.
Hughes scrisse il libro per dare consolazione ai suoi figli dopo il suicidio della moglie Sylvia Plath, rappresentando sé stesso come l’uomo di ferro, che, nonostante fosse ferito, continuava a proteggere i suoi cari.
Questa analogia profonda tra la sofferenza personale e la resilienza ha risuonato fortemente con Bird. Così, la scelta di dirigere Il Gigante di Ferro divenne non solo un progetto cinematografico, ma anche un modo per esplorare temi di perdita, redenzione e speranza attraverso l’arte dell’animazione.
La pellicola, infatti, non è soltanto una storia per bambini, ma un’opera che invita alla riflessione sulla natura della violenza e sulla possibilità di cambiamento e crescita, anche per chi è stato creato per distruggere.
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